Diritto ed Economia dell'ImpresaISSN 2499-3158
G. Giappichelli Editore

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La never-ending story delle valutazioni nel falso in bilancio e il suggello delle Sezioni Unite (di Vincenzo Pacileo)


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SOMMARIO:

1. Esposizione di un contrasto - 2. Marasma in Corte: le buone ragioni e i cattivi argomenti a confronto - 3. L’interpretazione: servizio o speculazione? - 4. Lo zoccolo duro della giurisprudenza in tema di falso - 5. “Materialità” e “material”: le trappole della traduzione - 6. Gli esempi sbagliati della sentenza Crespi - 7. “Vero” e “falso” nel contesto giuridico - 8. Incomprensioni e paralogismi della tesi avversa alle valutazioni - 9. La forza risolutiva della “rilevanza” del falso - 10. Il buon senso risorto - NOTE


1. Esposizione di un contrasto

“(…) Il passaggio della recente riforma ad una tipizzazione delle condotta (sia attiva che omissiva) che mutua solo la locuzione “fatti materiali”, legittima l’interpretazione che esclude la rilevanza penale ai fatti derivanti da procedimento valutativo” (Cass. Sez. V, 16 giugno 2015, n. 33774) [1]. “Può, allora, affermarsi il principio secondo cui nell’art. 2621 c.c. il riferimento ai “fatti materiali” oggetto di falsa rappresentazione non vale a escludere la rilevanza penale degli enunciati valutativi, che sono anch’essi predicabili di falsità quando violino criteri di valutazione predeterminati. Infatti, qualora intervengano in contesti che implichino accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o, comunque, tecnicamente indiscussi, anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere ad una funzione informativa e possono, quindi, dirsi veri o falsi” (Cass. Sez. V, 12.11.2015, n. 890/16) [2].


2. Marasma in Corte: le buone ragioni e i cattivi argomenti a confronto

Con la sent. n. 890/2016 la Cassazione ha tempestivamente turato la falla aperta dal clamoroso e improvvido svarione della decisione n. 33774/2015 (già prima esegesi giurisprudenziale di legittimità del falso in bilancio riformato), invertendo opportunamente la rotta e mettendo la barra a dritta per una navigazione sicura nelle acque agitate nel nuovo reato. E veramente di “falla” si deve parlare, se solo si pensa che l’interpretazione poi censurata darebbe la stura fluviale a una miriade di ricorsi in sede esecutiva volti alla revoca non solo delle non molte sentenze di condanna per falso in bilancio “puro”, ma delle ben più numerose per bancarotta impropria (anche) da falso in bilancio, ove vi fosse questione di poste estimative, oberando la giurisdizione di un aggravio di lavoro vano e fuori luogo, perché erroneo nelle sue premesse. Peraltro, va subito rimarcato con decisa e franca negatività che vi è stato chi in dottrina ha menato grande scandalo del révirement, ammantando le proprie argomentazioni di parole stonate e di circonlocuzioni talmente eccentriche rispetto alle reali cadenze della sentenza da annichilire con superfetazioni di stampo prettamente ideologico qualsiasi spazio ad un sereno e civile dibattito sulla riforma. Il passaggio è cruciale e necessita di una chiarezza cristallina, come di una voce vigorosa, nel respingere il tentativo di squalificare il lavoro analitico e motivato dei giudici come, addirittura, eversivo della stessa divisione dei poteri, e dunque – questo il concetto neanche troppo implicito – dell’ordine democratico. Quando si arriva ad affermare che “In quelle poche [sic!] righe della sentenza in commento viene annullata la maggior parte dei principi costituzionali che governano l’ordinamento penale e la sua applicazione”, poiché “È chiaro: la legge ha perso il suo primato, il giudice lo acquisisce e lo gestisce all’occorrenza” [3], e si chiamano a raccolta “tutti gli operatori del diritto e della giustizia” perché si uniscano “nella presa di coscienza della effettiva situazione che si è creata e che si verrà a creare”, quasi si trattasse di un colpo di stato, allora si va molto al di là della enunciazione, e sia pure della denuncia, dei (presunti) torti (interpretativi) degli uni e delle ragioni [continua ..]


3. L’interpretazione: servizio o speculazione?

Le valutazioni, dunque. Vecchio tormentone che ha afflitto dall’origine il versante penale delle false comunicazioni sociali, mentre è sempre stato incontroverso che la sua disciplina civilistica inevitabilmente ne abbonda quasi a ogni voce del regesto delle informazioni che con il bilancio vanno comunicate. Si è passati dai meri “fatti” quale oggetto di falsificazione dell’originario art. 2621 c.c. del 1942 ai “fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazione” della riforma del 2002 per terminare (per ora) con i “fatti materiali rilevanti”, sempre portandosi dietro l’amletico dubbio (per vero alimentato solo da taluni) se le valutazioni vi rientrano o meno. Ad eccezione di quanto si è ritenuto pacificamente predicabile con la riscrittura, per altri versi infausta, del 2002, relativamente alla quale, però, il dubbio, dissipato per un verso, si è riproposto nella inedita forma dell’interrogativo se la clausola concessiva introdotta da “ancorché” costituisse una innovazione di sostanza rispetto al testo del ’42 o, viceversa, non rappresentasse soltanto la esplicitazione di un concetto già ricompreso in quel testo originario [5]. Che poi ci si debba con accanimento “spellare le meningi” sulla vivisezione semantica di un sostantivo o di un sintagma alla ricerca alchemica di una pietra filosofale che sia finalmente in grado di trasformare, come per magia, le fonde tenebre di un testo nella luce meridiana del suo (presunto) significato, la dice dolorosamente lunga sul grado di bizantina acribia di cui fa pompa il nostrano dibattito giuridico, talvolta arcignamente indifferente a elementari ragioni di coerenza di sistema e alle pressanti esigenze di semplificazione e chiarezza a cui la stessa complessità del mondo contemporaneo, specie nelle società c.d. democratiche, dovrebbe astringere non solo il legislatore, ma lo stesso interprete. Questo, invece, è in fin dei conti il consapevole sforzo che innerva, pur inespresso e asetticamente perseguito, l’onestà e la lucidità intellettuale con cui la sentenza n. 890 ha affrontato la “titanica” questione. Senza dire che il diritto penale riveste da sempre una funzione tanto tutoria di interessi pubblici prioritari quanto dissuasivo-educativa, nel senso della prevenzione generale della [continua ..]


4. Lo zoccolo duro della giurisprudenza in tema di falso

Intanto, se per un attimo esuliamo dall’equivoca aggettivazione di materialità, si deve riconoscere che esistono svariate disposizioni penali che hanno per oggetto “fatti”, che possono inglobare delle valutazioni di cui pacificamente la giurisprudenza ritiene che siano predicabili di falso. Così gli artt. 372 (falsa testimonianza), 373 (falsa perizia), 483 (falsità ideologica del privato in atto pubblico), 479 (falso ideologico in atto pubblico) del codice penale. Ciò avviene nel caso di “valutazione tecnica, formulata in un contesto implicante l’accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, qualora il soggetto agente esprima il proprio giudizio contraddicendo tali parametri, ovvero basandosi su premesse contenenti false attestazioni” [6]. E il falso in bilancio consiste proprio in un falso ideologico in scrittura privata. Più analiticamente: “In tema di falso ideologico in atto pubblico, con riferimento alle diagnosi ed alle valutazioni compiute dal medico, va ritenuto che anche tali giudizi di valore, al pari degli enunciati in fatto, possono essere falsi. Sicché, nell’ambito di contesti che implichino l’accettazione di parametri valutativi normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, le valutazioni formulate da soggetti cui la legge riconosce una determinata perizia possono non solo configurarsi come errate, ma possono rientrare altresì nella categoria della falsità: ciò in quanto, laddove il giudizio faccia riferimento a criteri predeterminati, esso è un modo di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione (enunciati pacificamente falsificabili, quantunque, rispetto a tali categorie della conoscenza logica, esso dipende in maggior misura dal grado di specificità dei criteri di relazione). Ne consegue, pertanto, che può dirsi falso l’enunciato valutativo che contraddica criteri indiscussi o indiscutibili e sia fondato su premesse contenenti false attestazioni” [7]. Per parte sua il codice di rito all’art. 194 vieta al testimone di “esprimere apprezzamenti personali, salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti”. Si è qui in presenza di un ulteriore segnale normativo della esattezza della conclusione secondo cui il diritto ammette la possibilità che anche un [continua ..]


5. “Materialità” e “material”: le trappole della traduzione

Quanto alla enigmatica “materialità” dei fatti si dovrebbe ammettere che la sua enfatizzazione in chiave di discriminazione esegetica (per escludere la rilevanza delle valutazioni) è fuorviante. La sua introduzione avviene con il d.lgs. n. 61/2002, essendo sconosciuta tanto al codice di commercio Zanardelli del 1882 quanto all’art. 2621 c.c. del 1942. Peraltro, la clausola appositiva “ancorché oggetto di valutazioni”, lungi dal derogare alla regola della materialità, ne costituiva – innanzi tutto sul piano logico-sintattico – una specificazione e non una addizione [13]. In altri termini, questo compatto espressivo voleva dire, secondo il senso delle parole, che anche le valutazioni appartenevano alla categoria dei fatti materiali, e non che – non appartenendovi – vi venivano incluse per sola forza di legge (ora abrogata). Più esattamente, si doveva intendere che la valutazione di dati di fatto, ovvero che contenga o si risolva nella enunciazione di un fatto [14], rientrava nella prensione punitiva. Infatti, “a venire in rilievo – prima come ora – non è la modalità del giudizio che conduce all’enunciato, bensì l’enunciato stesso, il quale integra il paradigma criminoso e si risolve in un mendacio” [15]. Pertanto, l’argomento apparentemente suggestivo secondo cui l’elimi­nazio­ne dell’in­ciso esilia le valutazioni dai confini penali è un puro paralogismo [16]. Per il medesimo motivo altrettanto evanescente si dimostra l’argomento che si ricava dalla constatazione che nell’art. 2638 c.c. il sintagma originariamente comune all’art. 2621 c.c. è rimasto intatto per conchiudere, appunto, che ubi lex voluit dixit […] [17]. E ciò anche senza la necessità di obiettare che le disposizioni a confronto hanno obiettività giuridica diversa. Di fronte al compito di intendere cosa sono i “fatti materiali” la tesi più radicale sostiene l’insensatezza logico-giuridica di significanza, poiché non si potrebbe ipotizzare la punibilità di fatti “immateriali”, da cui discende la superfluità e improprietà di predicare come “materiali” fatti che, per essere punibili, non potrebbero che condividere natura [continua ..]


6. Gli esempi sbagliati della sentenza Crespi

Prima di procedere oltre vediamo come la debolezza della sentenza Crespi si annida nella scarsa concludenza (di parte almeno) della esemplificazione portata a puntello della tesi “riduzionista”. Vengono citati come fatti materiali, non valutativi, l’inserimento in bilancio di crediti nonostante il fallimento senza attivo del debitore, nonché la omessa svalutazione di una partecipazione nonostante il fallimento della controllata. Già quest’ultimo esempio non pare coerente con l’assunzione generale fatta in premessa dalla sentenza, poiché qui si ammette che una (s)valuta­zione sia penalmente rilevante [20]. Si noti, del resto, che il fallimento della società controllata può non determinare sempre ed automaticamente l’espunzio­ne dal bilancio della posta (perché a seguito della liquidazione dell’attivo potrebbe residuare una quota patrimoniale da restituire al socio). Il caso del credito verso il fallimento senza attivo sembra più pertinente: qui persiste un titolo giuridico alla esazione, che però è puramente figurativo, totalmente destituito di sostanza fattuale stante la sua sicura irrecuperabilità. Ma se questa situazione è riconducibile a un “fatto materiale”, perché non dovrebbe rientrarvi anche il caso del credito verso un fallimento dotato di un attivo? Qui la svalutazione del credito in bilancio potrebbe essere più o meno drastica in relazione alle ragionevoli prospettive di recupero in moneta fallimentare, ma se non viene operata alcuna svalutazione siamo di nuovo di fronte a un “fatto materiale” per la parte in cui il credito può ragionevolmente ritenersi definitivamente perso, e perciò fattualmente inesistente nella stessa prospettiva della sentenza Crespi. In altri termini, pur ragionando nell’alveo argomentativo di tale decisione, si deve osservare che vi sono diversi gradi di inesistenza di una voce di bilancio in ragione del quantum della sua ineffettività, fondata su circostanze di fatto. Se costituisce “fatto materiale” l’insussistenza di un credito sicuramente irrecuperabile, non lo è altrettanto, in parte qua, un credito solo in parte irrecuperabile? La sentenza Crespi sconta, poi, una certa contraddittorietà intrinseca. A proposito dei fatti che ritiene non punibili essa afferma in [continua ..]


7. “Vero” e “falso” nel contesto giuridico

Quanto appena esposto non determina, però, automaticamente la completa inconferenza del richiamo testuale ai “fatti materiali”. Un giudizio non è tale se non si ancora a una premessa fattuale. Il giudizio è la elaborazione critica di un dato estrapolato dalla realtà fenomenica (nel bilancio, di tipo economico-patrimoniale-finanziario). Altrimenti non è un giudizio, ma una scommessa, un lancio di dadi. Per la verità, da questo punto di vista anche un pronostico o una previsione (di ricavi, ecc.), se fondata su certe evidenze, pur interpretate in un certo modo (una tendenza espansiva del mercato settoriale ecc.), non sono mere fantasie, ma valutazioni. Perfino il trading di borsa, che per tanti versi può apparire come una partita a poker, è effettuato dagli esperti esaminando l’andamento dei titoli con sofisticati algoritmi. Anche la finanza più spericolata valuta fatti e ne estrae proiezioni, che hanno un contenuto predittivo non arbitrario, bensì oggettivo. Al limite le stesse scienze fisiche, convenzionalmente ritenute le più certe perché oggettive, si basano su ipotesi, che restano tali anche quando sono state verificate un milione di volte, poiché non si può escludere che in futuro verranno falsificate. Del resto, la fisica moderna si basa sulla teoria einsteiniana della relatività generale, che è “vera” perché “funziona”, ma ha funzionato anche in assenza della evidenza empirica delle onde gravitazionali, che la teoria prevede e che solo ultimamente sembra siano state flebilmente rintracciate. E quanto è vero, per così dire, a livello atomico non lo è più a livello sub-atomico. Certamente non occorre fare della epistemologia, per giunta spicciola, per risolvere un problema di falso in bilancio, né ricorrere alle implicazioni filosofiche che le leggi scientifiche sottendono. Ma è proprio questo il punto. La verità del bilancio non è un vero fenomenico e non può essere sussunto nell’am­bito della medesima costellazione concettuale. Dice bene la sentenza n. 890, ma non è una novità, che quello del bilancio è un vero “legale”, e dunque va decrittato con criteri normativi. Questi criteri sono quelli del codice civile. E non potrebbe essere diversamente.


8. Incomprensioni e paralogismi della tesi avversa alle valutazioni

Ora, anche se non si vuole dar credito alla teoria sanzionatoria del diritto penale, che si assume superata per via della autonomia di quest’ultimo, non è però dubitabile che la repressione penale viene prevista laddove vi è un interesse esterno che si intende proteggere. Evidentemente non si punisce per punire. Si puniscono, invece, quelle condotte che secondo il legislatore compromettono determinati valori ai più disparati livelli. Anche il furto, forse il più “naturale” dei reati, non appartiene al mondo di natura, ma al mondo giuridico. In natura il furto non esiste. Al primo livello esiste soltanto il fatto bruto che una cosa viene tolta da qualcuno a qualcun altro. Per affermare che si è in presenza di un “furto” occorre un’operazione critica, cioè un giudizio, cioè in fin dei conti una valutazione, mediata dagli istituti giuridici della proprietà e del possesso. Non sto parlando né dell’operazione probatoria che porta ad affermare che è il tale ad avere commesso il furto, e neppure di quella che permette di sussumere la sottrazione come datità nel furto di cui all’art. 624 c.p. Mi riferisco più in radice all’operazione normativa che pone il furto come norma. In altri termini, sempre tanto il giudice quanto a monte il legislatore compiono la trasformazione di una datità in un fatto giuridico, e questo in senso proprio non è mai un “fatto materiale”. Conseguentemente il vero, ammesso che esista, della datità non è il vero giuridico. Semplicemente, cambia il paradigma di riferimento [22]. Non ci vuole molto a capirlo. Riannodando le fila del discorso, è indiscutibile che gli artt. 2621 e 2622 c.c. mirano a salvaguardare la veridicità del bilancio, che non sta nell’empireo ma è quella sancita dal codice civile. Punto primo. Punto secondo. Se si dovesse seguire la tesi che qui si contrasta, considerato che la stragrande maggioranza delle poste di bilancio sono per un verso o per l’altro, dove più dove meno, valutative [23], ne seguirebbe che la norma incriminatrice, posta espressamente a tutela della funzione comunicativa (e la comunicazione è tale solo se corretta, cioè in questo senso vera), sarebbe in pratica inutiliter data in una serie di gran lunga preponderante di casi. Infatti, le [continua ..]


9. La forza risolutiva della “rilevanza” del falso

Si è anticipato che tutto questo non comporta di dover mettere in non cale il segnale che il legislatore ha dato utilizzando l’espressione “fatti materiali”. Solo che il significato non è (esattamente) quello che gli si è attribuito. Si è appena visto che una valutazione per essere tale non si regge su se stessa, cioè sul nulla. Si è affermato che “Se, dunque, compete all’amministratore di esprimere una prognosi sulla solvibilità dei debitori alla stregua dei presupposti oggettivi predetti [26], compito del giudice è di verificare se tali presupposti di fatto siano stati correttamente individuati e possano fondare l’operata valutazione” [27]. Questo è quanto vuole intendere l’art. 2621 c.c., secondo una ricostruzione non illogica del suo significato. In tal senso si potrebbe obiettare che l’aggetti­vazione di materialità dei fatti è pleonastica, proprio perché le valutazioni sono ancorate necessariamente a fatti. Ma l’obiezione non coglierebbe nel segno, poiché sono svariate le occasioni che testimoniano come opportunamente nel legiferare il legislatore può proporsi una funzione pedagogica nella articolazione del testo normativo. Si tratta di un richiamo, di un memento, al giudice e prima ancora ai soggetti che quella norma (incriminatrice) debbono rispettare per non incappare nel divieto e nella sanzione. Ciò che, pertanto, si esclude non sono le valutazioni, che hanno ineluttabilmente tratti di oggettività sia materiale (per esempio il fatto economico o pa­trimoniale o finanziario di base) su cui si innestano, sia giuridica (l’interpre­tazione che di quel fatto può essere fatta nei limiti legali). Per cui, anche per questa via, viene confermato che solo le elaborazioni maggiormente (ma in verità non del tutto, neanche qui) soggettive, come pronostici, previsioni e più ancora i meri progetti, esulano dalla sfera del falso (penale) in bilancio. D’altra parte, vi è un ulteriore elemento normativo che disperde quel tasso di incertezza che è forse la ragione di fondo che innerva la tesi favorevole alla espunzione delle valutazioni dal penale, e cioè il parametro della “rilevanza” [28]. Concetto certo flessibile, come in molti altri casi, ma ugualmente pregnante, [continua ..]


10. Il buon senso risorto

In conclusione. La diatriba cui stiamo assistendo è, a dir poco, avvilente. Invece, di rompersi il capo con sofistiche disquisizioni e distinzioni, e invece di estrarre il succo di significazione che può far vivere nell’ordinamento una norma che si prefigge precisi scopi di prevenzione e repressione, si fa di tutto, con caparbia miopia e con un sovrappiù di errori logico-ermeneutici, per renderla inoperante. Quale funzione si vuole assegnare alla giurisprudenza (come pure alla dottrina)? Si vuole, forse, farne un esercizio completamente sganciato dalla realtà delle cose su cui le norme dovrebbero incidere? E questa volta il legislatore non ha neppure colpe macroscopiche in termini di oscurità precettiva [33], poiché si è visto – per chi vuol vedere – che il nuovo testo degli artt. 2621 e 2622 c.c. non solo ammette preso di per sé, ma anzi impone sul piano sistematico, quanto invece si vuole negare. La verità è che non si dovrebbe perdere altro tempo prezioso ed energie intellettuali a disputare con cifra medievalistica [34] del “sesso degli angeli” (i.e. l’affannosa e includente ricerca di dove c’è o non c’è valutazione [35]) ma occorrerebbe concentrare lo sforzo sulle questioni effettive e, semmai, individuare i casi in cui le valutazioni, che di regola rientrano nei “fatti materiali”, eccezionalmente nel caso concreto vi sono aliene, invece di partire dalla premessa aprioristica che esse come tali vi sono estranee. Fortunatamente le sezioni unite della Cassazione hanno, si spera, definitivamente, spazzato via qualsiasi dubbio sulla persistente rilevanza penale delle valutazioni di bilancio. Per il momento ci si deve accontentare della informazione provvisoria, che espone il seguente principio di diritto: «Il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo all’esposizione o all’omissione di fatti oggetto di “valutazione”, sussiste se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente si discosti da tali criteri consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo a indurre in errore i destinatari delle comunicazioni». Occorre attendere le motivazioni della sentenza per una più approfondita verifica della portata del [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2016