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Gli strumenti di tutela del patrimonio e le procedure concorsuali

Francesco Pipicelli

Sommario:

1. Nozioni preliminari - 2. Le diverse tipologie di trust in ambito societario e delle procedure concorsuali - 3. Cass., sez. I, n. 10105/2014: il c.d. trust illecito, anti-concorsuale o falsamente liquidatorio - 4. La liquidazione di società di capitali attraverso la struttura del trust puramente liquidatorio - 5. Il trust c.d. di salvataggio nei concordati preventivi alla luce della recente giurisprudenza di merito


1. Nozioni preliminari

Obiettivo del presente contributo è tentare di verificare se e in quali limiti l’istituto del trust (con la sua attitudine a segregare e ad imprimere un vincolo “reale” di destinazione al patrimonio ad esso imputato) possa essere legittimamente ed efficacemente utilizzato nelle procedure di liquidazione societaria o a supporto di procedure concorsuali (fallimento e concordato preventivo), così come queste sono state ridisegnate dal legislatore delle riforme del diritto concorsuale iniziate da oltre un decennio e tuttora in corso (d.l. n. 83/2015, conv. in legge 6 agosto 2015, n. 132). L’esame sarà condotto, come è ovvio, alla luce della più avveduta dottrina e dei contributi della giurisprudenza di merito e, ove esistente, di legittimità.

Quanto alla definizione di tale negozio di destinazione, secondo la Convenzione dell’Aja del 1985, ratificata senza riserve dall’Italia con legge 16 ottobre 1989, n. 364, il trust è un rapporto giuridico che nasce da un atto dispositivo inter vivos o mortis causa con cui il soggetto disponente (settlor) trasferisce tutti o parte dei suoi beni (assets) ad un trustee il quale avrà il compito di amministrarli e gestirli secondo quanto previsto nell’atto istitutivo del trust e nell’interesse di un beneficiario o al fine del raggiungimento di un determinato scopo (purpose). Figura egualmente tipica dell’istituto del trust è quella del guardiano (protector o enforcer), nominato dal disponente quale supervisore dell’operato del trustee, il quale avrà, in particolare, il potere di revocare e sostituire il trustee medesimo.

Ciò che caratterizza in generale il trust, secondo la definizione dell’art. 2 della Convenzione, è lo scopo di costituire una separazione patrimoniale in vista del soddisfacimento di un interesse del beneficiario o del perseguimento di un fine dato. I beni vengono separati dal restante patrimonio ed intestati ad altro soggetto, parimenti in modo separato dal patrimonio di quest’ultimo. Quello enunciato costituisce, tuttavia, lo schema generale (se si vuole, la causa astratta) di segregazione patrimoniale propria dello strumento in esame, che si inserisce nell’ambito della più vasta categoria dei negozi fiduciari, e nel quale quindi un soggetto viene incaricato di svolgere una data attività per conto e nell’interesse di un altro.

Come noto, l’effetto principale e connaturato al trust e, più precisamente, al sotteso atto di dotazione dei beni, è il c.d. “effetto segregativo” che determina la separazione dei beni conferiti nei confronti sia del patrimonio del disponente sia del patrimonio del trustee, con la conseguenza che i medesimi beni non potranno essere oggetto di azioni esecutive e/o cautelari tanto da parte dei creditori particolari del disponente una volta decorso il termine annuale previsto dal nuovo art. 2929-bis (se trascrive il pignoramento nel termine di un anno dalla data in cui l’atto di costituzione del vincolo di disponibilità è stato trascritto), quanto da quelli del trustee.

Variante ampiamente diffusa è il c.d. trust autodichiarato, cioè quella tipologia di segregazione nella quale il soggetto disponente e il gestore coincidono nella stessa persona. In tal caso la costituzione del trust non determina alcun trasferimento, ma si concretizza nella sola apposizione di un vincolo di destinazione su taluni beni del patrimonio del disponente. Quest’ultima, come è evidente, è la figura che maggiormente può prestarsi a possibili abusi in danno dei creditori.


2. Le diverse tipologie di trust in ambito societario e delle procedure concorsuali

Secondo l’elaborazione dottrinale, è possibile distinguere i trust liquidatori, aventi cioè finalità di liquidazione del patrimonio sociale segregato, in relazione alla loro tipologia e soprattutto allo scopo enunciato. Così possono distinguersi:

1) i trust “di salvataggio o endo-concorsuale” che sono istituiti da un imprenditore in stato di crisi reversibile e mirano a scongiurare un’istanza di fallimento o a favorire e supportare soluzioni negoziali della crisi (ad esempio per rendere maggiormente appetibile una proposta di concordato può essere costituito con beni personali dell’imprenditore o di terzi), specialmente diffusi come si vedrà innanzi nelle procedure di concordato preventivo; in tal caso il trust è concluso quale alternativa alle misure concordate di risoluzione della crisi d’impresa

2) i trust “puramente liquidatori”, che realizzano una modalità alternativa alla liquidazione disciplinata dagli art. 2487 ss. c.c., consentendo al trustee di eseguire le operazioni di liquidazione e all’impresa liquidata di cancellarsi dal registro; il trust viene concluso per sostituire in toto la procedura liquidatoria, al fine di realizzare con altri mezzi il risultato equivalente di recuperare l’attivo, pagare il passivo, ripartire il residuo e cancellare la società.

3) i trust “falsamente liquidatori, illeciti o anti-concorsuali” istituiti da imprenditori già decotti che hanno soltanto lo scopo di ostacolare le pretese creditorie e di procrastinare (contando sul decorso del termine annuale previsto dall’art. 10 l. fall., decorrente dalla cancellazione dal registro dell’imprese) il fallimento di un’impresa già in stato di conclamata insolvenza; in tal caso, il trustviene a sostituirsi alla procedura fallimentare ed impedisce lo spossessamento dell’imprenditore insolvente. La fattispecie è oggetto di analitica e specifica trattazione nell’importante pronuncia di legittimità Cass., sez. I, n. 10105/2014.


3. Cass., sez. I, n. 10105/2014: il c.d. trust illecito, anti-concorsuale o falsamente liquidatorio

Nel caso di specie, la Corte d’appello di Roma aveva respinto il reclamo proposto, ai sensi della l. fall., art. 18, avverso la sentenza del Tribunale di Roma, che aveva dichiarato il fallimento della società ricorrente per cassazione.

La Corte territoriale aveva ritenuto la sussistenza dello stato di insolvenza, sebbene la società, già posta in liquidazione, avesse costituito un c.d. trust liquidatorio, in cui era stata conferita l’intera azienda, comprensiva dei debiti e dei crediti, provvedendo successivamente alla cancellazione della stessa dal registro delle imprese, opinando che la Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, ratificata con legge 16 ottobre 1989, n. 364, esclude si possa impedire l’appli­cazione della lex fori in tema di protezione dei creditori in caso d’insolvenza e che tale strumento sia stato utilizzato in funzione illecita, valorizzando una serie di accertamenti di fatto: in particolare, l’entità del debito nei confronti di Equitalia Sud S.p.A. e gli infruttuosi tentativi di pignoramento, il ridotto attivo residuo, la costituzione del trust da parte del legale rappresentante della società che ha pure il ruolo di trustee (che se da un punto di vista formale non qualifica il trust come “autodichiarato” in ragione della alterità soggettiva, la circostanza è stata però correttamente assunta dalla corte del merito come indizio significativo della illiceità dell’atto, mancando nella sostanza un vero affidamento intersoggettivo dei beni) ed il mancato compimento di qualsiasi concreta attività di liquidazione (non essendo indicato nel c.d. libro degli eventi quali di tali attività siano state avviate nei confronti dei creditori sociali) rendono apprezzabile il pericolo che il trust sia stato di fatto utilizzato per eludere la disciplina concorsuale, tenuto conto anche della successiva cancellazione della società dal registro delle imprese.

Occorre premettere che, come evidenziato dalla Corte di legittimità, la Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, resa esecutiva in Italia con la citata legge n. 364/1989, quale convenzione di diritto internazionale privato, regola la possibilità del riconoscimento degli effetti in Italia ad un particolare strumento di autonomia negoziale proprio dei sistemi di common law, il trust.

Peraltro, in ragione della estraneità dello strumento agli istituti giuridici di molti ordinamenti, la Convenzione dell’Aja contiene plurimi limiti di efficacia per il trust. In particolare, la norma di cui all’art. 13, nell’ambito di quelle deputate proprio a regolare le condizioni del riconoscimento, prevede: “Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi significativi, ad eccezione della scelta della legge applicabile, del luogo di amministrazione o della residenza abituale del trustee, siano collegati più strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione”. Essa è dunque rivolta agli Stati e costituisce una norma di preventiva chiusura, che come vedremo innanzi non sarà in concreto quella applicata dalla Cassazione per bloccare l’operatività interna del trust “falsamente liquidatorio”.

Nella presente pronuncia, la Cassazione si rifà all’orientamento, diffuso presso i giudici di merito, secondo cui il c.d. trustliquidatorio, inteso quale segregazione patrimoniale di tutto il patrimonio aziendale istituita per provvedere, in forme privatistiche, alla liquidazione dell’azienda sociale – è nullo, ai sensi dell’art. 1418 c.c., allorché abbia l’effetto di sottrarre agli organi della procedura fallimentare la liquidazione dei beni in contrasto con le norme imperative concorsuali, secondo le espresse regole di esclusione previste dall’art. 13, e art. 15, lett. e), della convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985.

L’alternatività degli strumenti lecitamente utilizzabili va esclusa, qualora non due istituti privatistici si comparino, ma strumenti di cui l’uno, quale il trust, ancorato a regole ed interessi comunque privati del disponente, e l’altro di natura schiettamente pubblicistica, qual è la procedura concorsuale, destinata a sopravvenire nel caso di insolvenza a tutela della par condicio creditorum e che non è surrogabile da strumenti che (ove pure siano trasferiti al trustee anche i rapporti passivi) né garantiscono tale parità, né escludono procedure individuali, né prevedono trattative vigilate con i creditori al fine della soluzione concordata della crisi, né contemplano alcun potere di amministrazione o controllo da parte del ceto creditorio o di un organo pubblico neutrale.

Del pari, altro è rispetto alle soluzioni negoziali delle crisi d’impresa il realizzare un’operazione – come il trasferimento in trustdell’azienda sociale – elusiva del procedimento concorsuale e degli interessi più generali alla cui soddisfazione esso è preposto.

Ove, pertanto, la causa concreta del regolamento in trust sia quella di segregare tutti i beni dell’impresa, a scapito di forme pubblicistiche quale il fallimento, che detta dettagliate procedure e requisiti a tutela dei creditori del disponente, l’ordinamento non può accordarvi tutela.

Il trust, sottraendo il patrimonio o l’azienda al suo titolare ed impedendo una liquidazione vigilata – in quanto rimette per intero la liquidazione dell’at­tivo alla discrezionalità del trustee – determina l’effetto, non accettabile per il nostro ordinamento, di sottrarre il patrimonio del debitore ai procedimenti pubblicistici di gestione delle crisi d’impresa ed all’attivo fallimentare della società settlor il patrimonio stesso.

Nel caso di specie, la Cassazione formula in via preliminare un giudizio di riconoscibilità del trust nel nostro ordinamento, nel raffronto con le norme inderogabili e di ordine pubblico in materia di procedure concorsuali.

E poiché il trust – secondo gli accertamenti di merito della sentenza impugnata, che ha ravvisato come esso fu costituito in una situazione di insolvenza – si palesa oggettivamente incompatibile con queste, lo strumento, ponendosi in deroga alle medesime, sarà “non riconoscibile” ai sensi dell’art. 15 della Convenzione, mentre non potrà applicarsi il predetto art. 13 che si rivolge allo Stato.

Tale norma, invero, espressamente prevede che la Convenzione non possa costituire “ostacolo all’applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di leggi” in tema di “protezione dei creditori in caso di insolvenza” (ed applicandosi a società italiana disponente le disposizioni della legge fallimentare interna), e l’ultimo comma aggiunge che “qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di attuare gli scopi del trust in altro modo”, così dunque palesando che proprio al giudice compete, e proprio per i motivi elencati nel primo comma, denegare il disconoscimento (e che dar corso alla procedura fallimentare costituisce appunto un modo compatibile con l’ordina­mento di realizzare il fine liquidatorio).

La conseguenza è che il giudice che pronuncia la sentenza dichiarativa del fallimento provvede incidenter tantum al disconoscimento del trust liquidatorio, il quale finisce per eludere artificiosamente le disposizioni concorsuali sottraendo al curatore la disponibilità dell’attivo societario; una volta accertata la non riconoscibilità, lo strumento non produce alcun effetto giuridico nel nostro ordinamento, in particolare non quello di creare un patrimonio separato, restando tamquam non esset; in tal caso, posto che la Convenzione ex art. 15 cit. non può costituire “ostacolo” all’applicazione della disciplina dell’insolvenza, è quest’ultima a porsi, all’inverso, come ostacolo al riconoscimento del trust.

Mentre la sanzione della nullità (ex artt. 1343, 1344, 1345 e 1418 c.c.) presuppone che l’atto sia stato riconosciuto dal nostro ordinamento, il conflitto con la disciplina inderogabile concorsuale determina invece la stessa inesistenza giuridica del trust nel diritto interno. Il trust deve essere disconosciuto dal giudice del merito, ogni volta che sia dichiarato il fallimento per essere accertata l’insolvenza del soggetto, ove l’insolvenza preesistesse all’atto istitutivo. Dalla dichiarazione di fallimento deriva, quindi, l’integrale non riconoscimento del trust, ai sensi dell’art. 15, comma 1, lett. e) della Convenzione, ponendosi esso oggettivamente in contrasto con il principio di tutela del ceto creditorio e per il fatto stesso che non consente il normale svolgimento della procedura a causa dell’effetto segregativo, il quale impedirebbe al curatore di amministrare e liquidare l’azienda ed, in generale, i beni conferiti in trust.

Ne consegue che:

• la non riconoscibilità permane, sebbene il trust indichi fra i suoi scopi proprio quello di tutelare i creditori dell’impresa ricorrendo alla segregazione patrimoniale ed alla liquidazione. Invero, l’insolvenza, come non è nelle fattispecie generali esclusa dalla mera capienza del patrimonio del debitore, così non è nella specie scongiurata dalla destinazione di quel patrimonio al soddisfacimento dei creditori. Ed infatti, ciò che può evitare la situazione d’insol­venza non è in sé l’istituzione del trust, ma, semmai, l’attuazione del program­ma, con l’avvenuto pagamento dei creditori e la soddisfazione delle obbligazioni originariamente in capo al debitore;

• nelle ipotesi in cui, come nel caso in esame, l’atto istitutivo contenga la clausola (riportata dalle parti) di risoluzione allorché sopravvenga una vicenda concorsuale nei confronti della disponente (c.d. clausola di salvaguardia), essa resta inoperante, come tutto il negozio, privo in via assoluta di effetti in quanto non riconosciuto ab origine.

In conclusione, il trust liquidatorio in presenza di uno stato preesistente di insolvenza non è riconoscibile nell’ordinamento italiano, onde il negozio non ha l’effetto di segregazione desiderato. Pertanto l’inefficacia non è esclusa: a) né dal fine dichiarato di provvedere alla liquidazione armonica della società nell’esclusivo interesse del ceto creditorio (od equivalenti); b) né dalla clausola che, in caso di procedura concorsuale sopravvenuta, preveda la consegna dei beni al curatore.

Se l’atto istitutivo del trust è tamquam non esset, occorre poi considerare quale sorte abbia il trasferimento dei beni o dell’azienda operato in favore del trustee.

Secondo l’art. 4 della Convenzione, questa non si applica alle questioni preliminari relative alla validità degli atti giuridici in virtù dei quali dei beni sono trasferiti al trustee”. Alla stregua, dunque, della legge interna, dal momento che il negozio istitutivo del trust si pone come antecedente causale (almeno dal punto di vista logico-giuridico, anche qualora contestuale) dell’attri­buzione patrimoniale operata con l’atto di trasferimento dei beni, ove non riconoscibile il primo diviene privo di causa il secondo (nullo per difetto di causa ex art. 1418, comma 2, prima parte, c.c., perché operato in esecuzione di negozio non riconoscibile). In tal modo, il curatore, per effetto dello spossessamento fallimentare che priva il fallito della disponibilità di suoi beni, tra i quali sono da ricomprendere tutti i diritti patrimoniali inefficacemente trasferiti, può materialmente procedere all’apprensione di essi.

Dalla lettura della sentenza, che ha individuato limiti specifici alla utilizzazione del trust in materia concorsuale, possono ricavarsi i seguenti principi:

a) il trust liquidatorio, a determinate condizioni, è legittimo, anche quando si atteggia a trust interno, specialmente quale strumento finalizzato alla positiva gestione di crisi d’impresa destinate a dar luogo a concordati preventivi, in base alle norme che negli ultimi anni tutelano la regolazione concordata del­l’insolvenza, oltre che per svolgere la liquidazione da parte di una società in bonis, senza danneggiare gli interessi dei creditori;

b) ai fini di valutarne la legittimità, non ci si può arrestare allo scrutinio della “causa astratta” e cioè del programma di segregazione con il quale un soggetto svolge una determinata attività per conto e nell’interesse di un altro soggetto, ma occorre anche valutare la “causa concreta”, che risulta dal regolamento d’interessi effettivamente perseguito;

c) il giudizio sulla validità dell’atto istitutivo del trust come dei susseguenti atti di attribuzione patrimoniale dev’essere preceduto da un giudizio sulla riconoscibilità da parte dell’ordinamento italiano del trust, dovendosi intendere che l’ordinamento italiano. disconosce, ai sensi dell’art. 15 della Convenzione dell’Aja, i trust che violino nelle materie ivi indicate principi di ordine pubblico propri del sistema interno (par condicio creditorum che va tutelata in caso di insolvenza nell’ambito della procedura fallimentare): nel caso d’insolvenza dell’imprenditore che sfoci in fallimento, il patrimonio del debitore non può essere sottratto alla procedura pubblicistica di liquidazione, sostituendola con l’attività del trustee; l’ordinamento non può riconoscere un trust sostitutivo della procedura fallimentare, quando la situazione d’insolvenza sia già prodotta. Esso non sarebbe solo nullo, ma del tutto inesistente giuridicamente e, dunque, tamquam non esset, siccome lesivo non solo di una norma, ma di un intero plesso normativo imperativo e di ordine pubblico e, dunque, incapace di produrre alcun effetto giuridicamente rilevante. La Suprema Corte aderisce dichiaratamente, pur con un apparato motivazionale parzialmente difforme, al­l’orientamento già espresso dalla giurisprudenza di merito, secondo cui il trust segregativo dell’intero patrimonio aziendale è nullo (e, per la Suprema Corte, anzi, inesistente) allorché abbia l’effetto di sottrarre agli organi della procedura fallimentare la liquidazione dei beni in contrasto con le norme imperative concorsuali.

La dottrina ha evidenziato due punti deboli della predetta pronuncia:

1) in primo luogo, la tutela dei creditori è affidata in linea generale dall’or­dinamento italiano al sistema delle azioni revocatorie che notoriamente ope­rano sul piano della inefficacia relativa, e non della validità degli atti che incidono sulla garanzia patrimoniale: pertanto, gli atti compiuti da un imprenditore poi fallito dovrebbero quindi essere inefficaci, e non nulli come sembra concludere la Suprema Corte;

2) in secondo luogo, non pare del tutto congruo evocare la “non riconoscibilità” in relazione al trust c.d. interno in quanto la riconoscibilità, secondo i principi del diritto internazionale privato, parrebbe riferirsi a fattispecie internazionali e non interne.

Infine, va rilevato che la Suprema Corte nulla dice espressamente con riguardo al caso in cui un’impresa istituisca un trustliquidatorio per favorire la propria liquidazione, trovandosi in una situazione di solvibilità ma venga successivamente dichiarata fallita. In proposito, giova rammentare che il d.l. n. 83/2015 conv. in legge n. 132/2015 ha introdotto un nuovo comma 2 all’art. 64 l. fall., il quale stabilisce che i beni trasferiti a titolo gratuito vengono acquisiti alla massa fallimentare mediante semplice trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento. Ove si consideri gratuito il trasferimento dei beni al trustee la inefficacia dell’atto dipende oggi dall’adempimento di tale specifica forma di pubblicità, contro il trustee e a favore della procedura.


4. La liquidazione di società di capitali attraverso la struttura del trust puramente liquidatorio

A tale riguardo occorre tener conto di alcuni orientamenti, senz’altro più rigorosi, espressi sia dai giudici del registro sia dai tribunali in sede di impugnazione di tali provvedimenti, guidati da un consolidato orientamento del giudice del registro di Milano.

Dinanzi a fattispecie nelle quali una società posta in liquidazione trasferisca l’intero patrimonio sociale (attivo e passivo) a un trust, presenti il bilancio finale di liquidazione e ottenga la cancellazione dal registro delle imprese, la posizione dei giudici ambrosiani è netta: la cessione senza corrispettivo, dunque senza realizzo, al trust non coincide con l’attività di liquidazione che quindi non è stata effettuata anzi non è stata neanche iniziata.

In altri termini, si cancella perché si è liquidato; il fatto che si riservi la liquidazione a un terzo e non la si realizzi secondo il procedimento classico non conduce in alcun modo a ritenere conclusa l’attività liquidatoria. Essa, per vero, non è neppure iniziata, ma meramente programmata attraverso la costituzione del trust e la relativa dotazione.

Per vero, anzi, l’affrettata liquidazione e cancellazione della società, tale da lasciare insoddisfatti creditori sociali di cui gli organi conoscevano l’esistenza rappresenta l’ipotesi più classica di responsabilità ex art. 2395 c.c.


5. Il trust c.d. di salvataggio nei concordati preventivi alla luce della recente giurisprudenza di merito

Come è noto l’art. 160, comma 1, lett. a), l. fall. prevede che il piano di concordato raggiunga l’obbiettivo della ristrutturazione dei debiti e della soddisfazione dei crediti “attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo o altro operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione i creditori, nonché a società da questi partecipate di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito”.

Possiamo dunque ipotizzare la fattispecie di un imprenditore in stato di crisi che presenta una proposta di concordato preventivo incentrata su un trust con finalità liquidatorie (il trustee ha l’incarico di pagare i creditori dopo aver liquidato i beni) ovvero conservative (ai fini del risanamento dell’azienda) ovvero prima conservative e poi liquidatorie. Questa figura è suscettibile di un ulteriore possibile configurazione nei c.d. concordati misti, ossia con intervento di soggetti terzi che forniscono beni al fabbisogno concordatario: nel fondo in trust in aggiunta o in alternativa ai beni dell’imprenditore vengono conferiti beni di terzi al fine di destinarli alla soddisfazione di creditori.

Acconto alla fattispecie della cessione delle attività all’assuntore non è infrequente nella prassi delle procedure concorsuali la formulazione di piani di concordato basati sulla presenza di terzi che apportano propri beni a garanzia del soddisfacimento delle obbligazioni dell’imprenditore. Tali figure sono dette di concordato misto. La presenza di beni del terzo può essere funzionale o semplicemente a garantire in modo maggiore i creditori ovvero a colmare la differenza negativa tra i valori di realizzo dei beni dell’imprenditore e la percentuale offerta ai creditori.

Vantaggi di questa soluzione negoziale:

– possibilità di anticipare il vincolo di destinazione istituendo il trust prima del deposito della domanda di concordato preventivo, fermi gli effetti del nuovo art. 2929-bis c.c.;

– possibilità della nomina del commissario giudiziale/ liquidatore quale trustee e del comitato dei creditori quale guardiano;

– possibilità di condizionare sospensivamente il conferimento in trust al­l’accoglimento della domanda o alla omologazione del concordato preventivo e di condizionare risolutivamente il conferimento nel caso di successivo fallimento della società ammessa alla procedura; andrebbe inoltre regolata la sorte di eventuali atti di disposizione compiuti dal trustee durante la pendenza della condizione, al fine di chiarire se essi restano efficaci oppure vengono travolti retroattivamente in seguito al verificarsi dell’evento dedotto in condizione risolutiva. Rispetto ad un conferimento dei beni nella società in procedura (che avrebbe comportato per il terzo l’irrimediabile perdita dei beni sia in caso di mancata omologazione del concordato sia in caso di fallimento) la maggiore flessibilità e vantaggiosità del trust appare di immediata evidenza.

Nell’ambito di una procedura di concordato la semplice “offerta” di beni da parte del terzo o dell’assuntore non solo non assicura la successiva liquidazione dei beni in favore dei creditori, ma, soprattutto, non attribuisce ai creditori del concordato alcun diritto di prelazione (e tanto meno di esclusiva) sui beni del terzo o dell’assuntore, che restano esposti alle azioni esecutive dei rispettivi creditori nonché a sequestri o iscrizioni di ipoteche giudiziali. Infatti, trattandosi di soggetti diversi dal debitore assoggettato a procedura il c.d. ombrello protettivo previsto dagli artt. 168 e 182-bis l. fall. non può trovare attuazione, sicché è possibile che anche in pendenza del concordato i creditori personali del terzo, agendo a tutela dei propri crediti, riescano a vanificare in pratica la “messa a disposizione” dei beni in favore dei creditori concordatari.

Necessario appare inoltre indicare un termine entro il quale il trustee deve provvedere a liquidare i beni onde consentire compiutamente, con il ricavato della vendita il soddisfacimento dei creditori secondo quanto deve essere indicato nella proposta di concordato. La durata del vincolo segregativo deve co­incidere con la durata della procedura concordataria. In tal senso essa dovrà alternativamente essere determinata in un termine fisso (attualmente cinque o sei anni sembrano una prospettiva temporale plausibile per l’esecuzione di un concordato, ma i tempi variano in base alle diverse sedi giudiziarie) ovvero deve essere resa coincidente con l’avvenuta realizzazione dello scopo liquidatorio qualora si tratti di un trust di scopo.

Opportuno appare prevedere la facoltà per il giudice di sostituire il trustee ed il guardiano rispettivamente con la persona del commissario giudiziale e con il comitato dei creditori, per assicurare l’effettivo adempimento delle finalità per le quali il trust è stato costituito.

Trib. Ravenna, 4 aprile 201310 ha ammesso una società a r.l. in liquidazione alla procedura del concordato preventivo che nel caso di specie si caratterizzava per la natura liquidatoria e per la messa a disposizione, in favore della procedura, di nuova finanza ad opera di un terzo mediante il conferimento di due beni immobili in un trust disciplinato dalla legge di Jersey.

L’apporto dei cespiti avveniva attraverso la costituzione di un trust di scopo la cui efficacia era condizionata risolutivamente alla mancata omologazione del concordato entro il termine di diciotto mesi dall’istituzione del trust. Una seconda condizione risolutiva era costituita dal fallimento “in qualsiasi momento” della società in procedura.

Il trust ravennate non era della tipologia del trust auto-dichiarato poiché il terzo finanziatore assumeva la posizione di disponente e di guardiano; il figlio del medesimo quella di trustee, i creditori concorsuali erano indicati beneficiari del vincolo segregativo, sia pure sotto le predette condizioni risolutive. Era prevista la facoltà per il giudice delegato di revocare e sostituire sia il trustee sia il guardiano.

Trib. Forlì, 4 febbraio 2015 ha ritenuto meritevole di tutela un trust liquidatorio auto-dichiarato con il quale il fideiussore di una società, in procinto di presentare una domanda di concordato preventivo, appone sui propri beni un vincolo di destinazione a favore dei creditori del concordato.

La vicenda oggetto del contenzioso trae origine dalla concessione di una fideiussione a garanzia dell’adempimento di più crediti contratti da una società e rimasti non soddisfatti. Il fideiussore costituisce un trust, vincolando più beni immobili al fine di assicurare ai creditori della società garantita la non dispersione del patrimonio e la successiva liquidazione in previsione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo che la società era in procinto di presentare. Si tratta nella specie di un trustinterno, auto-dichiarato con soggetti giuridici italiani e beni posti in Italia retto dalla legge di Jersey. Nel caso in esame il trustconteneva la previsione che il ricavato della vendita fosse versato al guardiano per saldare i creditori secondo un criterio strettamente proporzionale tra l’entità dei loro rispettivi crediti e quella del patrimonio facente parte del fondo in trust posto a garanzia dei loro diritti.

Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. il trustee (che nel caso coincide con il disponente) chiede al giudice di merito di accertare l’insussistenza del diritto di due istituti bancari creditori di iscrivere ipoteca su alcuni beni immobili vincolati in trust.

I convenuti in via riconvenzionale domandano al tribunale di accertare la nullità dell’atto istitutivo o in subordine di revocare ai sensi dell’art. 2901 c.c. l’atto dispositivo relativo agli immobili destinati in trust.

Il tribunale con ampia motivazione rigetta la domanda della ricorrente; rigetta la domanda riconvenzionale di nullità dell’atto istitutivo del trust e accoglie la domanda riconvenzionale subordinata rivolta ad ottenere la dichiarazione di inefficacia dell’atto di disposizione di tutti i beni in trust, cioè l’azio­ne revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c.

Occorre dunque sottolineare come il tribunale abbia in primo luogo riconosciuto la piena legittimità al trust auto-dichiarato oggetto della controversia. In secondo luogo reputa riconoscibile e valido il trust liquidatorio che realizza un programma di segregazione funzionale alla liquidazione del patrimonio del disponente al fine di facilitare la procedura di concordato della società garantita, rassicurando i creditori della stessa sulla non dispersione dei beni.

Il giudice tuttavia accoglie l’azione revocatoria ordinaria, risolvendo il conflitto tra l’interesse del disponente a favorire la soluzione della crisi e l’in­teresse dei suoi creditori a mantenere inalterata la situazione patrimoniale del loro debitore, a favore di questi ultimi.

Il ragionamento svolto da tribunale per affermare la ricorrenza dei presupposti oggettivi e soggettivi dell’azione pauliana è articolato. L’eventus damni è ravvisato nella modifica della situazione patrimoniale del debitore. Ancorché non vi sia trasferimento di beni ma mera funzionalizzazione ad uno scopo connessa alla segregazione patrimoniale, ciò è sufficiente a rendere più difficoltosa la realizzazione coattiva del credito e ciò integra pregiudizio per il creditore, secondo un consolidato orientamento della Cassazione, a partire da Cass. n. 19131/2004.

Il consilium fraudis del disponente è ravvisato dal tribunale nella consapevolezza del pregiudizio che sarebbe derivato ai propri creditori, trattandosi di atto di segregazione successivo alla nascita del credito. Il tribunale, inoltre, equipara l’atto di dotazione dei beni al trust ad un atto a titolo gratuito (poiché non vi è uno spostamento patrimoniale e non trattandosi di atto di natura solutoria), in rapporto all’interesse dei terzi beneficiari cioè i creditori della società garantita, escludendo conseguentemente la necessità della partecipatio fraudis.

In tema di atti di destinazione patrimoniale anche diversi dal trust nell’am­bito del concordato preventivo, pare interessante soffermarsi sulla sentenza del Trib. Prato, 12 agosto 2015, n. 942.

Nel caso concreto, una banca titolare di un credito per circa un milione e mezzo di euro nei confronti di due società (una debitrice principale e l’altra quale fideiubente), aveva convenuto in giudizio quest’ultima al fine di far accertare e dichiarare la nullità e/o inefficacia e/o inopponibilità nei suoi confronti dell’atto di destinazione ex art. 2645-ter avente ad oggetto beni immobili, compiuto dalla convenuta per supportare la domanda di concordato preventivo svolta dalla società debitrice principale (sotto condizione sospensiva del­l’omologazione della stessa), domanda che poi era stata valutata favorevolmente ed omologata; di tale circostanza l’attrice si era avveduta, sulla base della nota di trascrizione, nel momento in cui era andata ad iscrivere ipoteca giudiziale sulla base del decreto ingiuntivo ottenuto.

La banca sosteneva che l’avvenuta omologazione del concordato preventivo avrebbe causato un pregiudizio al creditore prelatizio in via ipotecaria e soprattutto che l’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. fosse del tutto inidoneo al raggiungimento dello scopo indicato dalla norma quale specificamente meritevole di tutela, essendo stati tali interessi testualmente limitati dal legislatore a quelli riferibili a persone con disabilità o alla P.A. o ad altri enti e persone fisiche.

La questione giuridica a cui dare risposta – sulla quale la dottrina e la giurisprudenza di merito sono divise e non vi sono state pronunce di legittimità – è se la norma in questione sia strumento idoneo a realizzare soltanto interessi giuridicamente rilevanti collegati alla tutela della disabilità e della P.A. o anche in funzione di un rapporto causale sottostante per scopi ulteriori e diversi di natura patrimoniale rilevanti ex art. 1322 c.c.

In proposito, il Tribunale di Prato ha ritenuto che l’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. sia efficace e meritevole di tutela exart. 1322 c.c., con riferimento al patrimonio posto a garanzia e nell’interesse del soddisfacimento dei creditori di società in crisi, ove vi sia l’intenzione di instaurare procedure di concordato preventivo: è infatti degna di riconoscimento e tutela da parte dell’ordinamento giuridico italiano la finalità di assicurare una soddisfazione proporzionale ai creditori non muniti di causa di prelazione.

Una lettura restrittiva della norma che ritenga utilizzabile l’atto di destinazione solo per finalità di pubblica utilità sarebbe illegittima e non costituzionalmente orientata, oltre che in contrasto con le altre esperienze internazionali (“fiducie” in Francia e “trust” nei paesi anglosassoni, stante il fatto che la nor­ma in questione è stata definita come il trust italiano), in cui gli atti di destinazione sono utilizzati per le più svariate finalità, anche di tipo commerciale o finanziario.

In tal senso, il controllo di meritevolezza ex art. 1322 c.c. imposto dalla norma non coincide da un lato con la mera non illiceità del contratto né dal­l’altro con l’utilità sociale. Non è sostenibile che solo gli scopi di tutela di un soggetto debole o disabile giustificherebbero la limitazione della responsabilità del debitore. Al contrario, il concetto di meritevolezza ed il rinvio all’art. 1322 c.c. assumono il significato di richiedere la presenza, quale base dell’atto di destinazione, di una causa diversa ed ulteriore rispetto alla mera intenzione del disponente di limitare la propria responsabilità.