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L'insolvenza delle società a partecipazione pubblica
Giovanna Carla Dominici
Luciano Matteo Quattrocchio
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Sommario:
1. Premessa - 2. La natura delle società a partecipazione pubblica - 3. Le c.d. 'società in house' - 4. Il fallimento delle società a partecipazione pubblica - 5. Segue. Il fallimento delle c.d. 'società in house' - 6. La posizione della Corte dei Conti - 7. La c.d. 'riforma Madia' - 8. Conclusioni - Bibliografia
1. Premessa
Il tema dell’insolvenza delle società in mano pubblica, e in particolare delle società partecipate dagli enti locali, ha affaticato per anni giurisprudenza e dottrina.
Esso muove dalla circostanza che l’inquadramento giuridico delle società partecipate rappresenta, ancora oggi, uno problema di non facile soluzione, tenuto anche conto della presenza di una miriade di moduli societari che perseguono il fine pubblico del soddisfacimento dell’interesse generale della collettività. Si tratta – infatti – di soggetti ibridi, a metà strada tra il diritto pubblico ed il diritto privato. Di conseguenza, appare difficile collocarli – alternativamente – tra gli enti pubblici o tra le società private; con evidenti difficoltà in ordine alla corretta identificazione della natura giuridica degli atti posti in essere e, conseguentemente, dubbi in tema di riparto di giurisdizione.
Per un corretto inquadramento giuridico, occorre – al proposito – rammentare che il Codice Civile dedica – ora – alle società con partecipazione dello Stato e degli enti pubblici un unico articolo (l’art. 2449), collocato nella sezione XIII, Libro V, Titolo V, Capo V; infatti, l’art. 2450 è stato abrogato dall’art. 3, comma 1, d.l. 15 febbraio 2007, n. 10, convertito nella legge 6 aprile 2007, n. 46. In particolare, l’art. 2449 si limita a fornire indicazioni peculiari circa amministratori, sindaci e componenti il consiglio di sorveglianza.
In termini più generali, la Relazione al codice civile del 1942 stabiliva: «In questi casi è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge della società per azioni per assicurare alla propria gestione maggior snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici. La disciplina comune della società per azioni deve pertanto applicarsi anche alle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici senza eccezioni, in quanto norme speciali non dispongano diversamente».
Alla luce di tale dichiarazione di principio, si dovrebbe – quindi – ritenere che lo schema societario adottato imponga l’applicazione di tutte le disposizioni civilistiche di riferimento. E tale assunto sembrerebbe avvalorato dall’art. 4, comma 13, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 135, per effetto del quale «Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali».
In definitiva, la mancanza di una disciplina dettagliata a livello codicistico non sarebbe altro che la manifestazione della volontà del legislatore di assoggettare l’iniziativa economica pubblica, esercitata in forma societaria, al diritto comune.
Ciò nonostante, per le ragioni di cui si dirà, permane il problema delle regole in concreto applicabili nell’ipotesi di crisi delle società a partecipazione pubblica.
Infatti, sia la normativa codicistica sia quella fallimentare stabiliscono per gli enti pubblici un’espressa esenzione dall’applicazione delle disposizioni in materia di fallimento e di concordato preventivo. In particolare, l’art. 1 della Legge Fallimentare – indicando il requisito soggettivo per la fallibilità – stabilisce che «sono soggetti al fallimento e alle disposizioni sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici»; del medesimo tenore l’art. 2221 c.c., secondo cui «Gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori, sono soggetti in caso di insolvenza alle procedure del fallimento e del concordato preventivo salve le disposizioni delle leggi speciali».
Tale scelta si fonda sull’idea della presunta incompatibilità tra le finalità proprie dell’attività degli enti pubblici e gli effetti tipici della procedura fallimentare, nonché sull’esigenza di mantenere in capo agli stessi soggetti la titolarità delle funzioni amministrative, evitando l’ingerenza dell’autorità giudiziaria in ambiti riservati all’autorità amministrativa, e – ancora – l’interruzione del pubblico servizio erogato dall’ente.
Tuttavia, l’art. 1 della legge fallimentare, pur non contenendo disposizioni in materia di società partecipate da un socio pubblico che svolgono attività di impresa, esclude, tuttavia, dalla possibilità di fallire i c.d. “enti pubblici economici”, ovvero quei soggetti che, sino agli inizi degli anni novanta, hanno rappresentato il modulo organizzativo ordinario per lo svolgimento di attività di impresa da parte dello Stato. Tale deroga, oggi espressamente prevista solo per gli enti pubblici economici, nonostante la loro quasi totale sostituzione con il modello delle spa pubbliche, ha quindi spinto la dottrina e, soprattutto, la giurisprudenza, investita di casi concreti, ad interrogarsi sulla possibile applicazione dell’esenzione di cui all’art. 1, anche alle società in mano pubblica (S. DEL GATTO).
Il problema, dunque, risiede nel qualificare la società partecipata o come soggetto privato che esercita attività commerciale oppure come ente pubblico a tutti gli effetti. In tale ultimo caso la società sarebbe immune dal fallimento, sul presupposto della tutela dell’interesse generale sotteso all’attività espletata. Per converso, qualora si prediligesse la qualifica in termini di soggetto privato, ne deriverebbe l’applicazione in toto della disciplina privatistica di cui è parte la legge fallimentare.
In mancanza di una chiara previsione normativa, si pone – quindi – il problema se le società a partecipazione pubblica siano integralmente assoggettabili al regime proprio degli enti pubblici, anche tenuto conto delle difficoltà relative all’identificazione di questi ultimi, ovvero – in tema, tra l’altro, di insolvenza – a quello dei soggetti di diritto privato.
Al proposito, nonostante le recenti pronunce della Corte di Cassazione (v. infra), restano ancora dubbi almeno per le società c.d. “in house providing”, che – secondo l’interpretazione corrente – costituiscono una species del genere società partecipate pubbliche.
Sotto un profilo generale, è da dire che la sottrazione ai creditori del rimedio dell’esecuzione concorsuale e la possibilità di ottenere la tutela dei propri interessi mediante il ricorso alla sola esecuzione individuale, potrebbe ledere il principio della par condicio creditorum, che – come è noto – costituisce il principio cardine in ambito concorsuale.
E, secondo una certa tesi dovrebbero essere gli Enti Pubblici a farsi carico dei relativi debiti, senza possibilità per i creditori di tentare la strada del fallimento come strumento per soddisfare le proprie ragioni, potendosi – ma la questione è controversa – invocare la responsabilità del socio che esercita l’attività di direzione e coordinamento.
In tale contesto, di grande incertezza, l’unico precedente giurisprudenziale è stato costituito – per molto tempo – da un principio espresso dalla Corte di Cassazione (Cass. 10 gennaio 1979, n. 158), secondo cui «una società per azioni, concessionaria dello Stato per la costruzione e l’esercizio di un’autostrada, non perde la propria qualità di diritto privato (…) per il fatto che ad essa partecipano enti pubblici come azionisti e che il rapporto giuridico instaurato con gli utenti dell’autostrada sia configurato, dal legislatore, in termini pubblicistici, come ammissione al godimento di un pubblico servizio previo il pagamento di una tassa (pedaggio) e che lo Stato garantisca i creditori dei mutui contratti dalla società concessionaria per la realizzazione del servizio». La Suprema Corte aveva affermato, dunque, l’applicazione – ad una società concessionaria di un pubblico servizio ed al cui azionariato partecipavano soci pubblici – del regime privatistico ordinario, con il conseguente assoggettamento a procedure concorsuali.
Più di recente, invece, sono intervenute, in rapida successione, diverse decisioni di merito nelle quali la questione è stata affrontata e risolta in maniera del tutto differente.
In particolare, a quanto consta primo fra tutti, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Trib. Santa Maria Capua Vetere, 9 gennaio 2009) ha affermato la non assoggettabilità a fallimento delle società in mano pubblica (nella specie si trattava di una spa a totale partecipazione pubblica, titolare del servizio di raccolta differenziata in ambito provinciale). Più in particolare, «Ai fini della qualificazione di un soggetto come pubblico o privato si deve dare prevalenza alla sostanza rispetto alla forma giuridica e, pertanto, in presenza di determinati indici sintomatici, è possibile riconoscere natura pubblica anche a società per azioni formalmente private. Ne discende che, in applicazione dell’art. 1 primo comma l. fall., deve ritenersi non assoggettata alla normativa fallimentare la società a partecipazione pubblica avente natura formalmente privata, ma sostanzialmente pubblica (nella fattispecie, gli indici della natura sostanzialmente pubblica della società sono stati ravvisati nelle limitazioni statutarie all’autonomia degli organi societari, nella esclusiva titolarità pubblica del capitale sociale, nella ingerenza nella nomina degli amministratori da parte di organi promananti direttamente dalòla Stato e nella erogazione da parte dello Stato di risorse finanziarie per il raggiungimento degli obiettivi previsti per la raccolta differenziata)».
Dopo anni di oscillazioni (v. infra), la Corte di Cassazione si è – poi – pronunciata (Cass. 27 settembre 2013, n. 22209) considerando fallibile una società mista, sul riflesso che una società di capitali – anche se a capitale pubblico – rimane assoggettata al regime del Codice Civile se non vi è una deroga di legge. Inoltre secondo il giudice di legittimità l’esenzione dal fallimento delle società pubbliche configurerebbe una violazione dei principi di concorrenza, di uguaglianza e affidamento.
Poco dopo, la Corte di Cassazione a sezioni unite (Cass., sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283) ha affermato che le società in house non sono altro che articolazioni organizzative dell’ente pubblico controllante.
Pertanto, se la fallibilità delle società a capitale misto pubblico-privato sembrerebbe essere pacifica, discorso diverso dovrebbe essere fatto per le società a totale partecipazione pubblica; con la conseguenza che i creditori delle società in house avrebbero soltanto la possibilità di aggredire il patrimonio degli enti locali.
Per la verità, l’apparente situazione di totale incertezza giuridica ha trovato – nel corso del tempo – qualche indicazione legislativa.
In particolare, il d.l. 28 agosto 2008, n. 134, conv. nella legge 27 ottobre 2008, n. 166 (“Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in crisi”) che ha modificato la legge sulla ristrutturazione delle grandi imprese in crisi – d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito con modificazioni dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39 (c.d. “Legge Marzano”) – prevede espressamente per le società partecipate pubbliche, esercenti servizi pubblici essenziali, una particolare procedura, e cioè quella della ristrutturazione delle grandi imprese in crisi.
Occorre ancora rammentare che lo schema di disegno di legge delega sulla riforma organica della disciplina della crisi di impresa e dell’insolvenza (c.d. “Riforma Rordorf”), all’art. 2, comma 1, lett. e), prevede che sia assoggettata al procedimento di accertamento dello stato di crisi o di insolvenza ogni categoria di debitore (persona fisica o giuridica, ente collettivo, consumatore, professionista o imprenditore commerciale o agricolo) con esclusione dei soli enti pubblici, disciplinandone distintamente i diversi esiti possibili, con riguardo all’apertura di procedure di regolazione concordata o coattiva, conservativa o liquidatoria, tenendo conto delle relative peculiarità soggettive ed oggettive.
La questione pare – comunque – in via di soluzione nell’ambito del diritto amministrativo, per effetto della recente riforma della Pubblica Amministrazione (legge 7 agosto 2015, n. 124), la quale all’art. 18, rubricato “Riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche”, prevede una completa organizzazione del sistema delle partecipazioni pubbliche e indica alla lett. a), quale criterio direttivo, «la distinzione tra tipi di società in relazione alle attività svolte, agli interessi pubblici di riferimento, alla misura e qualità della partecipazione e alla sua natura diretta o indiretta, alla modalità diretta o mediante procedura di evidenza pubblica dell’affidamento, nonché alla quotazione in borsa o all’emissione di strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentati, e individuazione della relativa disciplina, anche in base al principio di proporzionalità delle deroghe rispetto alla disciplina privatistica, ivi compresa quella in materia di organizzazione e crisi d’impresa».
2. La natura delle società a partecipazione pubblica
Le società a capitale pubblico costituiscono soggetti formalmente privati disciplinati da norme che, in alcuni casi, derogano in chiave pubblicistica alla disciplina di diritto civile. Si distinguono, pertanto, dagli enti pubblici economici, caratterizzati dal fatto di essere soggetti formalmente pubblici che operano in regime di diritto privato. La scelta della forma societaria come modalità di organizzazione pubblica comporta la necessità di conciliare la struttura tipica delle società, imperniata sul fine di lucro, con l’interesse pubblico che si intende realizzare (F. NICOTRA).
L’esistenza degli enti pubblici a struttura societaria ha portato la giurisprudenza ad affermare la neutralità del modello societario rispetto alle finalità che si intendono perseguire. Tuttavia, autorevole dottrina rileva che, a parte i casi di società c.d. “legali” (istituite, trasformate o comunque disciplinate con apposita legge speciale), «ci troviamo spesso di fronte a società di diritto, comune, in cui pubblico non è l’ente partecipato bensì il soggetto, o alcuni dei soggetti, che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica che regola il contegno del socio pubblico e quella privatistica che regola il funzionamento della società convivono» (F. FIMMANÒ).
Questa interpretazione risulta avvalorata dalla tendenza dell’ordinamento comunitario ad essere indifferente al profilo nominalistico, rilevando invece – ai fini della classificazione della natura pubblica o privata degli enti – la sostanza delle funzioni esercitate e la tipologia degli interessi perseguiti; ciò anche sul riflesso dell’influenza dell’ordinamento comunitario, che, non tollera ingiustificati privilegi in capo alla prima a scapito dei principi della libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali (artt. 49 e 63 TFUE), strumentali alla tutela del principio di concorrenza (F. NICOTRA).
In proposito, il dibattito tradizionale sviluppatosi evidenzia una contrapposizione tra una visione c.d. “privatistica” e una visione c.d. “pubblicistica”.
Secondo la prima visione, le società a partecipazione pubblica sarebbero soggette al medesimo regime di disciplina delle società di capitali a partecipazione privata, sul presupposto che alle stesse si applica lo statuto comune della società per azioni, salvo quanto disposto dall’art. 2449 c.c.
Sulla base della seconda versione, si tratterebbe – comunque – di società sottoposte ad una disciplina legislativa speciale che ne caratterizza in senso pubblicistico la natura, imponendo il perseguimento di un determinato fine pubblico la cui permanenza è resa indisponibile alla volontà degli organi deliberativi; e ciò proprio in considerazione della rilevanza degli interessi pubblici perseguiti.
3. Le c.d. 'società in house'
Le società in house sono aziende pubbliche costituite in forma societaria, tipicamente società per azioni, il cui capitale è detenuto in toto – direttamente o indirettamente – da un ente pubblico che affida loro attività strumentali o di produzione. La costituzione di una società in house rappresenta una delle modalità con cui un ente può organizzarsi per erogare i servizi di gestione interna (informatica, pulizie, ecc.) o i servizi ai cittadini o alle imprese (trasporti, energia, igiene, ecc.).
La Corte di Giustizia – con la sentenza Teckal – ha individuato per la prima volta, in maniera chiara, i tratti qualificanti dell’in house providing, rinvenendoli nell’assenza di un rapporto contrattuale tra l’amministrazione aggiudicatrice e la persona giuridica destinataria dell’affidamento, in quanto l’ente conferente esercita sul prestatore del servizio un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e tale persona (giuridica) realizza la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti che la controllano.
La Corte di Cassazione (Cass., sez. un., 5 novembre 2013, n. 26283) ha, più precisamente, affermato che le società in house si caratterizzano pertanto per la contemporanea presenza di tre requisiti:
• la natura esclusivamente pubblica dei soci;
• l’esercizio dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi;
• la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici.
Quindi, si può parlare di società in house quando ci si trovi in presenza di una società caratterizzata da totale assenza di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza dell’assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico titolare della partecipazione sociale.
Sulla base di queste premesse, la Corte di Cassazione afferma che la società in house, come in qualche modo già la sua stessa denominazione enuncia, non pare in grado di collocarsi come un’entità posta al di fuori dell’ente pubblico, che ne dispone come di una propria articolazione interna; in altri termini si tratterebbe di una longa manus della pubblica amministrazione, al punto che l’affidamento pubblico mediante in house contract neppure consente veramente di configurare un rapporto contrattuale intersoggettivo (Corte Cost. 20 marzo 2013, n. 46); ne consegue che «l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante, ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa» (Cons. Stato, Ad. Plen., 3 marzo 2008, n. 1).
La Corte, dunque, conclude ritenendo che solo per le società in house non valgono i limiti di giurisdizione del giudice contabile nelle cause riguardanti la responsabilità degli organi di gestione di società a partecipazione pubblica e «non possono valere perché – ciò sia detto quanto meno ai limitati fini del riparto di giurisdizione – queste ultime hanno della società solo la forma esteriore, ma, come s’è visto, costituiscono in realtà delle articolazione della pubblica amministrazione da cui promanano e non dei soggetti giuridici ad essa esterni e da essa autonomi”, ciò anche con riferimento al loro patrimonio.
In definitiva, le Sezioni Unite affermano – con riferimento alle società in house – che la loro prevalente attività dovrebbe essere destinata a favore dell’ente o degli enti partecipanti, sicché in buona sostanza, dovrebbe trattarsi di una società di capitali non destinata, se non in via del tutto marginale e strumentale, allo svolgimento di attività di imprenditoriali. Ulteriormente, le Sezioni Unite ritengono che il controllo analogo priverebbe gli organi sociali della propria autonomia gestionale, ed è sulla base di quest’ultima caratteristica che s’innesterebbe la convinzione dell’assenza di alterità soggettiva tra socio pubblico e società (F. NICOTRA).
4. Il fallimento delle società a partecipazione pubblica
Come già si è detto, in giurisprudenza e in dottrina si è registrato nel corso del tempo un orientamento discordante.
In particolare, si sono contrapposte due impostazioni metodologiche, quella “tipologica” e quella “funzionale”, le quali hanno dato luogo, in entrambi i casi, sia a soluzioni favorevoli all’applicabilità della disciplina fallimentare alle spa pubbliche, sia a soluzioni contrarie (S. DEL GATTO).
In base all’impostazione c.d. tipologica, la scelta sulla disciplina applicabile va fatta sulla base del “tipo” al quale la società partecipata appartiene. Pertanto, coloro che ritengono che buona parte delle società partecipate siano in verità enti pubblici, non ammettono il fallimento delle società partecipate in base ad un’interpretazione estensiva dell’art. 1 della l. fall. (G. ROSSI); quelli, invece, che ritengono che una società abbia sempre natura privatistica a prescindere dalla partecipazione pubblica e dai collegamenti, più o meno intensi, che vi possano essere con l’ente pubblico (in termini di risorse, controlli, attività, ecc.), affermano, al contrario, la sottoposizione di queste società alle procedure concorsuali senza eccezione alcuna (F. FIMMANÒ).
La scienza giuridica che segue l’approccio “funzionale”, invece, basa la scelta se una determinata disciplina possa essere applicata alle società per azioni partecipate, non sulla natura – pubblica o privata – della società, ma sull’interesse che con tale disciplina si vuole tutelare (G. NAPOLITANO). Per stabilire, dunque, se la legge fallimentare trovi o no, applicazione nei casi delle spa partecipate da soggetti pubblici, è necessario chiedersi se le ragioni sottese all’esenzione prevista dall’art. 1, l. fall. per gli enti pubblici economici, sussistano anche per le spa partecipate (o, quantomeno, per alcune tra le spa partecipate) (F. GALGANO). In caso di risposta affermativa si dovrà escludere il loro assoggettamento alle norme fallimentari (G. D’ATTORRE).
Al proposito, deve ancora essere osservato che esonerare dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali le società a capitale pubblico insolventi – al di là di eventuali ipotesi espressamente previste dal legislatore o in virtù della specifica missione loro assegnata – potrebbe determinare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato, nonché una disparità di trattamento tra imprese pubbliche e private, in violazione dell’art. 106 del Trattato CE, proprio perché, in tal modo, le une, a differenza delle altre, potrebbero continuare ad operare in perdita sul mercato (F. NICOTRA).
La questione è stata esaminata con dovizia di argomenti dalla Corte di Cassazione (Cass. 27 settembre 2013, n. 22209), che ha affrontato la vicenda di una società a responsabilità limitata, partecipata al 51% del capitale da un ente pubblico (Area di Sviluppo Industriale), cui il Prefetto aveva affidato, in regime di concessione, la realizzazione e la gestione di un impianto per lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani della provincia.
In particolare, come affermato dalla Suprema Corte, «il legislatore ha ribadito la scelta favorevole alla riconducibilità delle società pubbliche fra quelle di diritto comune sia con il D.Lgs. n. 3 del 2003, di riforma del diritto societario, che ha sostituito agli artt. 2458/60 gli artt. 2449 e 2450 c.c. (…) sia col D.Lgs. n. 5 del 2006 di riforma del diritto fallimentare, che non ha modificato il R.D. n. 267 del 1942, art. 1, comma 1. E, come sottolineato da autorevole dottrina, neppure le innumerevoli disposizioni normative speciali che, nel corso degli anni, sono state emanate in tema di società pubbliche, costituiscono un corpus unitario, sufficiente a regolamentarne attività e funzionamento ed a modificarne la natura di soggetti di diritto privato, così da sottrarle espressamente alla disciplina civilistica».
Proprio per questo, anche le «eventuali norme speciali che siano volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono, infatti, sul modo in cui essa opera nel mercato né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell’affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica». Dunque, «l’eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo non appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile».
La Corte di Cassazione si sofferma, quindi, sul caso specifico delle società partecipate da enti locali sulle quali «la complessa disciplina ricavabile dal D.Lgs. n. 267 del 2008, artt. 112 e 118 (TUEL.) e dalle successive leggi di modifica e/o di integrazione mantiene fermo il principio della separatezza fra titolarità degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinati all’esercizio dei servizi pubblici (che devono restare di proprietà degli enti, salvo che questi non li conferiscano a società a capitale interamente pubblico e incedibile) e attività di erogazione dei servizi, che può essere affidata anche a soggetti privati (L. n. 138 del 2011, art. 4, comma 28). Il fallimento della partecipata, ancorché, in ipotesi, costituta all’unico scopo di gestire un determinato servizio pubblico, non preclude dunque all’ente locale, rimasto proprietario dei beni necessari all’esercizio di quel servizio, di affidarne la gestione ad un nuovo soggetto».
E, con riferimento alle stesse, la Suprema Corte afferma che: «la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali – e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico – comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità».
5. Segue. Il fallimento delle c.d. 'società in house'
5.1. Premessa
Sulla possibilità per la società in house di accedere al concordato preventivo, all’accordo di ristrutturazione dei debiti e di essere assoggettata a fallimento, la giurisprudenza non è univoca. Esistono due orientamenti opposti, che fanno entrambi riferimento alle posizioni (anch’esse discordanti) assunte nel tempo dalla Cassazione.
5.2. La posizione contro la fallibilità
L’esercizio di servizi ritenuti essenziali per la collettività ha portato parte delle giurisprudenza a estendere alle società in housel’esenzione dalla dichiarazione di fallimento che l’art. 1 delle legge fallimentare riserva (invero) ai soli enti pubblici territoriali (v. art. 1. l. fall.). In particolare, si esclude l’autonoma fallibilità, considerando le società in house come “propaggini inanimate” dell’ente territoriale, i cui amministratori rappresentano meri “esecutori” delle direttive del socio pubblico (F. NICOTRA).
Come già si è detto, il primo provvedimento edito è quello del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Trib. Santa Maria Capua Vetere, 9 gennaio 2009), che ha affermato la non assoggettabilità a fallimento delle società in mano pubblica (nella specie si trattava di una spa a totale partecipazione pubblica, titolare del servizio di raccolta differenziata in ambito provinciale).
Al proposito, lo stesso Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha – a più riprese (Trib. Santa Maria Capua Vetere, 22 luglio 2009; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 24 maggio 2011) – individuato gli elementi qualificanti le società in house, affermando quanto segue:
• «Posto che la mera titolarità in capo ad un soggetto pubblico delle partecipazioni ad una società per azioni non consente di concludere tout court per la natura pubblica della partecipata, al fine di stabilire la assoggettabilità o meno a procedura concorsuale della medesima, si dovrà in concreto e caso per caso valutarne la gestione e l’attività svolta. Si potrà, pertanto, ritenere sussistente la natura pubblica qualora i) la società affidataria di un determinato servizio svolga la maggior parte della propria attività a favore dell’ente pubblico; ii) l’impresa non abbia acquisito una vocazione commerciale che renda precario il controllo dell’ente pubblico e che può risultare, tra l’altro, dall’ampliamento dell’oggetto sociale, dall’apertura obbligatoria della società ad altri capitali, dall’espansione territoriale a tutto il territorio nazionale e all’estero; iii) il consiglio di amministrazione della società non abbia poteri gestionali di rilievo e l’ente pubblico eserciti poteri maggiori e più incisivi di quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale; iiii) le decisioni di maggior rilievo debbano essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante. Non ha pertanto natura pubblica la società per azioni che pur essendo partecipata in tutto o in parte da un ente pubblico, sia caratterizzata da una gestione interamente riferibile al diritto privato e peculiare dell’impresa commerciale, le cui decisioni siano adottate con i meccanismi previsti dal diritto privato e non siano sottoposte al vaglio preventivo dell’ente pubblico»;
• «La società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato per il solo fatto che l’ente pubblico ne possegga in tutto o in parte le azioni. Pertanto, se la società partecipata dalla mano pubblica si avvale degli strumenti previsti dal diritto societario, essa non può che essere ritenuta un soggetto di natura privata. Le forme privatistiche di esercizio di impresa commerciale potranno eventualmente porre questioni attinenti alla natura pubblica o privata del soggetto partecipato da enti pubblici solo qualora l’aspetto gestionale e di attività di detti enti risultasse completamente avulso dalle regole e dagli schemi del diritto commerciale, così da rappresentare la società un mero organo, un’articolazione che si immedesima nel soggetto pubblico che la partecipa. Su questo tema la giurisprudenza ha affermato che gli indici di valutazione riguardanti sia l’aspetto gestionale che l’attività della società che gestisce il servizio pubblico in favore dell’ente locale che interamente la partecipa attengono in sintesi alla concorrenza dei seguenti dati: a) il soggetto affidatario deve svolgere la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico; b) l’impresa non deve aver acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo dell’ente pubblico e che può risultare, tra l’altro, dall’ampliamento del soggetto sociale, dall’apertura obbligatoria della società ad altri capitali, dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutto il territorio nazionale ed all’estero; c) il consiglio di amministrazione della società non deve avere poteri gestionali di rilievo e l’ente pubblico esercita poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale; d) le decisioni di maggior rilievo devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante».
La giurisprudenza di merito ha – successivamente – confermato tale orientamento, sul riflesso che «le società in mano pubblica, al ricorrere di determinate condizioni, non sarebbero fallibili non già perché enti pubblici, ma perché non riconducibili alla categoria dell’imprenditore commerciale» (Trib. Palermo 8 gennaio 2013). In particolare, secondo il Tribunale di Palermo, le società per azioni partecipate dal Comune, pur essendo istituite sotto forma di impresa di diritto privato, non possono fallire poiché sono mancanti del requisito oggettivo previsto dall’art. 1 della legge fallimentare, ossia perché non sono imprenditori commerciali. Allo stesso modo ne è escluso l’accesso all’amministrazione straordinaria ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 270/99. D’altra parte – si è rilevato ancora – la società a partecipazione pubblica è una delle modalità con la quale viene esercitato il servizio pubblico. Per cui, in ipotesi di decozione della società (che si traduce nell’incapacità della società di soddisfare con regolarità i propri debiti), compito dell’ente pubblico che la partecipa (in veste di socio) è quello di trovare una modalità alternativa al soddisfacimento degli interessi pubblici mediante l’affidamento del servizio (da essa fino ad allora gestito) in altra forma ovvero riassegnandolo ad altro soggetto, mentre spetta agli organi del fallimento la liquidazione delle attività della società nel rispetto dei principio del “concorso” tra tutti i creditori (secondo criteri di soddisfazione stabilite ex lege e nel rispetto delle cause di prelazione in essere).
A ciò si deve anche aggiungere che il sistema di pubblicità legale (attuato tramite l’iscrizione della società nel Registro delle Imprese) determina nei terzi che hanno (e hanno avuto) a che fare con la società un legittimo affidamento sull’applicabilità alla medesima della disciplina di diritto civile (conforme al nomen iuris dichiarato), data dall’insieme di regole valide per tutte le società commerciali comprese, anche, quelle della sottoposizione al fallimento nel caso (estremo) di insolvenza. Detto affidamento verrebbe altrimenti deluso se il diritto civile venisse disapplicato e sostituito con particolari disposizioni pubblicistiche.
Si è, successivamente, affermato che il servizio pubblico è insuscettibile di interruzione senza recare pregiudizio per la collettività (stante la prevalenza dell’interesse pubblico ad una regolare erogazione del servizio sugli interessi dei creditori istituzionalmente tutelati dalla procedura fallimentare) e che gli effetti tipici derivanti dal fallimento determinerebbero una ingerenza dell’autorità giudiziaria in ambiti che sono, invece, riservati alla (sola) Pubblica Amministrazione (Trib. La Spezia, 20 marzo 2013).
È, poi, intervenuta la Corte di Cassazione a sezioni unite (Cass., sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283), la quale – pur occupandosi di giurisdizione – ha precisato, indirettamente, che l’esenzione dalle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, prevista per gli enti pubblici dall’art. 1, comma 1, della legge fallimentare, deve essere applicata anche alle società c.d. in house providing (v. supra).
In presenza delle società in esame non può configurarsi un rapporto di alterità, né una separazione patrimoniale, tra l’ente pubblico partecipante e la società stessa. Ricorrendo i presupposti citati, dunque, deve escludersi l’assoggettabilità delle società in house a fallimento.
Inoltre, come accade nelle Amministrazioni pubbliche, gli amministratori della società sono sottoposti ad un controllo assoluto da parte delle amministrazioni, tali da privarli di effettivi e concreti poteri gestori. In qualità di articolazione di enti pubblici, a tali società deve essere estesa la previsione di esenzione di fallimento, ex art. 1 l. fall. La società in house, in sostanza, coinciderebbe con l’ente pubblico e, perciò, sarebbe al pari sottratto al fallimento, ai sensi dell’articolo 1 della legge fallimentare.
Tale principio è stato, più di recente, ribadito dalla giurisprudenza di merito, che ha evidenziato come nelle società in house gli organi sociali risultano preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione interna alla pubblica amministrazione e ad essa legati da un vero e proprio rapporto di servizio; con la conseguenza che non vi è distinzione tra ente pubblico e società e che, dunque, anche quest’ultima riveste le caratteristiche dell’ente pubblico e, pertanto, non è fallibile.
In particolare, la giurisprudenza ha affermato che «L’esenzione dalle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo prevista per gli enti pubblici dall’articolo 1, comma 1, l. fall. deve essere applicata anche alle società cd. “in house providing”, le quali possono essere individuate in base ai criteri indicati nella sentenza della Corte di cassazione 25 novembre 2013, n. 26283, secondo la quale detta qualifica va attribuita alle società che presentino congiuntamente i seguenti tre requisiti: 1) natura esclusivamente pubblica dei soci; 2) lo svolgimento dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi; 3) la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici» (Trib. Verona, 19 dicembre 2013); inoltre, «Se è vero che gli enti pubblici sono sottratti al fallimento, anche la società in house integralmente partecipata dagli stessi, non potrà essere soggetta alla liquidazione fallimentare, in quanto concreta mero patrimonio separato dell’ente pubblico e non distinto soggetto giuridico, centro decisionale autonomo e distinto dal socio pubblico titolare della partecipazione, che esercita sullo stesso un potere di governo del tutto corrispondente a quello esercitato sui propri organi interni» (Trib. Napoli, 9 gennaio 2014).
Ancora più di recente si è affermato che non vi è distinzione tra ente pubblico e società e che, dunque, anche quest’ultima riveste le caratteristiche dell’ente pubblico: pertanto, non può fallire (App. Aquila, 3 marzo 2015).
5.3. La posizione a favore della fallibilità
La prima sentenza edita sul punto è quella resa dalla Corte d’Appello di Napoli (App. Napoli, 15 luglio 2009), secondo cui «il rilievo pubblico di alcune società di diritto privato permette l’applicazione di determinati istituti di natura pubblicistica, in presenza di specifiche disposizioni di legge, ma non consente di qualificare l’ente come pubblico e di sottrarlo all’ordinaria disciplina codicistica. Ne consegue che se, in ambito concorsuale, manca una specifica disciplina che preveda l’applicabilità alle società in mano pubblica dell’esenzione del fallimento propria degli enti pubblici, le stesse rimangono assoggettate a tale procedura, al pari delle altre società di diritto privato».
Successivamente, il Tribunale di Velletri (Trib. Velletri, 8 marzo 2010) ha affermato che «È assoggettabile a procedura concorsuale – e può quindi essere ammessa al concordato preventivo – la società per azioni interamente partecipata da capitale pubblico e che utilizzi risorse pubbliche per lo svolgimento della propria attività qualora la sua sfera d’azione sia riconducibile al diritto privato secondo uno schema comunque inquadrabile nel modello previsto dal codice civile. (Nella specie, il potere di indirizzo riconosciuto all’ente pubblico è limitato all’espletamento del servizio nel territorio di riferimento, gli enti locali non hanno alcun potere di ingerenza nella gestione complessiva della società e di verifica del bilancio e non esercitano comunque un potere analogo a quello esercitato dall’ente pubblico sui propri servizi; l’oggetto sociale ammette infine l’espletamento dell’attività a favore di terzi)».
Ed infatti, anche trascurando il problema della natura pubblica o privata, si è sostenuto che «l’esenzione dalle procedure concorsuali di tali società pregiudicherebbe sia l’interesse dei creditori, sia l’interesse pubblico, sia (potenzialmente) l’interesse della stessa società» (Trib. Napoli, 31 ottobre 2012).
Nello stesso senso di è pronunciata la Corte di Cassazione (Cass. 27 settembre 2013, n. 22209), la quale ha affermato che «in tema di società partecipate dagli enti locali, la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità»; d’altronde, la sussistenza di eventuali norme speciali volte a regolare la costituzione delle società a partecipazione pubblica, la partecipazione pubblica stessa al capitale sociale, la designazione (pubblica) dei suoi organi interni (consiglio di amministrazione e collegio sindacale) non muta la natura di soggetto privato delle società partecipate, interamente o parzialmente, da soggetti pubblici, posto che vi è assoluta autonomina tra società e ente, di modo che l’ente può incidere sul funzionamento e sull’attività della società non attraverso poteri autoritativi e discrezionali; ma solo avvalendosi degli strumenti di diritto societario esercitati a mezzo dei componenti degli organi della società che sono affidati alla sua nomina.
In altri termini, l’affermata competenza giurisdizionale della Corte dei Conti non impedisce affatto che le predette società possano essere assoggettate a procedura concorsuale, ben potendo le condotte dei soggetti essere considerate plurioffensive e, cioè, lesive del patrimonio pubblico e, nel contempo, pregiudizievoli per i creditori o i terzi (ai sensi degli artt. 2394 e 2395 c.c.). Inoltre, l’indubbia peculiarità della governance della società in house non esclude che questa si atteggi, nei rapporti coi terzi, come un qualunque soggetto imprenditoriale privato (e, come tale, a rischio di insolvenza). Infine, la finalità pubblicistica perseguita dagli enti pubblici soci non è automatica caratteristica della società in house, la quale (come quella in esame) agisce sul mercato con finalità di lucro (in termini di perseguimento – quantomeno – di un pareggio di bilancio, se non di lucro); in particolare, «In difetto di diversa qualificazione legislativa, deve ritenersi valido il principio generale della assoggettabilità alle procedure concorsuali delle imprese che abbiano assunto la forma societaria iscrivendosi nell’apposito registro e quindi volontariamente assoggettandosi alla disciplina privatistica» (Trib. Modena, 10 gennaio 2014).
La giurisprudenza di merito (Trib. Pescara, 14 gennaio 2014) ha affermato, successivamente, che «Sono assoggettabili a procedura concorsuale le società cd. in house, in quanto la natura del rapporto funzionale con l’ente proprietario non si riflette sulla disciplina normativa applicabile all’organizzazione societaria, che rimane quella ordinaria prevista dal codice civile. Le società di capitali con partecipazione pubblica non mutano, infatti, la loro natura di soggetto di diritto privato solo perché lo Stato o gli enti pubblici (Comune, Provincia, ecc.) ne posseggono le azioni, in tutto o in parte, non assumendo rilievo alcuno, per le vicende della medesima, la persona dell’azionista, dato che tale società, quale persona giuridica privata, opera “nell’esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l’ente pubblico” e gli strumenti utilizzati per regolare il rapporto tra società ed ente locale non possono essere quelli autoritativi di diritto pubblico spendibili nell’organizzazione diretta dell’ente, ma l’ente può avvalersi unicamente degli strumenti propri del diritto societario, da esercitare per il tramite dei membri di nomina pubblica presenti negli organi sociali».
Ed ancora (Trib. Palermo, 13 ottobre 2014), «È di interpretazione autentica la norma di cui al D.L. n. 95/12, convertito in L. 135/2012, che ha dettato, in materia di società a partecipazione pubblica, una disposizione di generale rinvio alla disciplina codicistica delle società di capitali, precisando che: “Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali”»; con la conseguenza che «Le società costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un’attività commerciale sono assoggettabili a fallimento, indipendentemente dall’effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, non dall’inizio del concreto esercizio dell’attività d’impresa, al contrario di quanto avviene per l’imprenditore commerciale individuale. Sicché, mentre quest’ultimo è identificato dall’esercizio effettivo dell’attività, relativamente alle società commerciali è lo statuto a compiere tale identificazione, realizzandosi l’assunzione della qualità in un momento anteriore a quello in cui è possibile, per l’impresa non collettiva, stabilire che la persona fisica abbia scelto, tra i molteplici fini potenzialmente raggiungibili, quello connesso alla dimensione imprenditoriale».
Pertanto, (Trib. Reggio Emilia, 18 dicembre 2014) «Può dichiararsi il fallimento della società “in house” (totalmente partecipata da enti pubblici) che non esercita un servizio pubblico essenziale di esclusiva competenza pubblicistica, poiché la stessa agisce sul mercato con finalità di lucro e si atteggia – nei rapporti coi terzi – come un soggetto privato, non potendosi invece desumere un ostacolo alla fallibilità dall’affermata giurisdizione del giudice contabile sulla responsabilità degli amministratori».
Ancora più di recente si è affermato che le disposizioni contenute nel Codice civile e nella legge fallimentare valgono per tutte le società, anche per quelle in house che possono quindi fallire (App. Napoli, 27 ottobre 2015), dovendosi considerare insussistenti i presupposti per procedere ad una riqualificazione come ente pubblico delle società in house, ossia delle società sotto il totale controllo di enti pubblici.
La Corte d’appello di Napoli, in particolare, esamina i due diversi orientamenti e si sofferma in particolar modo sulla pronuncia della Corte di Cassazione a sezioni unite, affermando i principi di seguito richiamati:
• rifarsi alla pronuncia della Suprema Corte per sostenere la non fallibilità delle società in house non è corretto, in quanto la sentenza riguarda la giurisdizione della Corte dei conti sull’azione di responsabilità erariale nei confronti degli amministratori delle società; questione da considerarsi di carattere settoriale;
• l’orientamento della Cassazione non è sistematicamente incompatibile con l’applicazione delle norme fallimentari alle società in house, in quanto le condotte dei soggetti possono essere plurioffensive, cioè allo stesso tempo lesive del patrimonio pubblico e pregiudizievoli per i creditori o i terzi;
• a favore dell’applicabilità delle disposizioni fallimentari alle in house (e quindi della loro fallibilità) ci sono anche le disposizioni contenute nella legge delega sulla riorganizzazione della Pubblica Amministrazione, anche se resta ferma la necessità di indicazioni legislative specifiche, in arrivo con i decreti ora in fase di approvazione (si veda anche la pagina seguente). «Gli articoli 16-19 della legge n. 124/2015 – si legge nella sentenza – costituiscono conferma sia dell’inesistenza allo stato di indici normativi che consentano di qualificare la società in house come enti pubblici sia della necessità di dirimere le criticità sorte in relazione a tali società con un apposito intervento normativo»;
• il fulcro della questione è, quindi, quello di verificare se al momento della dichiarazione di fallimento la società ricorrente poteva essere qualificata come società in house e in caso positivo se tale qualificazione precludeva la possibilità di dichiarare il fallimento;
• a una società in house possono essere applicate le disposizioni derogatorie previste per gli enti pubblici solo se è possibile escludere che tali società esercitino un’attività commerciale;
• visto che, nel caso sotto esame, dalla verifica era emerso che la società in questione svolgeva attività commerciale, viene respinto il reclamo.
6. La posizione della Corte dei Conti
La questione dell’insolvenza delle società a partecipazione pubblica, e soprattutto delle conseguenze che dalla stessa potrebbero derivare, è stata affrontata anche dalla Corte dei Conti (Corte dei Conti, sezione di controllo per il Piemonte, deliberazione 18 febbraio 2016, n. 14/2016/PAR).
Nel caso sottoposto all’esame della Corte di Conti, il Comune partecipava in via totalitaria ad una società costituita per realizzare operazioni di cartolarizzazione di immobili comunali ad essa conferiti dall’ente locale. A suo tempo, il comune socio aveva prestato una garanzia reale mediante pegno su quote della società medesima nei confronti degli istituti finanziatori e della società interamente partecipata. La società è stata posta in stato liquidazione e il patrimonio sociale, anche a seguito della necessaria e prudenziale svalutazione degli immobili di proprietà, non è in grado di garantire la chiusura della fase di liquidazione in pareggio, attesa la registrazione da parte del liquidatore di un considerevole deficit nel corso della relativa procedura. Per evitare il fallimento, il liquidatore ha quindi proposto all’ente locale un piano di liquidazione che suddivide il suddetto deficit in 10 anni, con l’onere per l’ente stesso, in qualità di socio unico, di farsi carico delle occorrenti risorse finanziarie (A. SANTUARI).
In considerazione delle garanzie prestate alla società, il Comune si è – dunque – posto il problema di come affrontare l’impatto in bilancio nel caso di fallimento della partecipata, e ha interpellato la Sezione per sapere se l’ente possa legittimamente procedere alla copertura del deficit, nei termini proposti dal liquidatore. Sul punto, i giudici contabili piemontesi hanno precisato quanto segue:
• nel caso di escussione della garanzia reale prestata dall’ente, la responsabilità patrimoniale non può che essere limitata al bene prestato in garanzia;
• da ciò consegue che in tale ipotesi l’impatto sul bilancio del Comune è riconducibile alla diminuzione patrimoniale consistente nell’espropriazione forzata della partecipazione societaria (il cui valore, peraltro, è già stato oggetto di svalutazione);
• il potere d’intervento del socio pubblico deve rispettare l’art. 6, comma 19, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, che fa divieto agli enti locali di effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito, nonché di rilasciare garanzie a favore delle società partecipate che abbiano registrato perdite per 3 esercizi consecutivi;
• in tale contesto, l’assunzione a carico del bilancio comunale del deficit della partecipata in liquidazione non può che rientrare nella fattispecie residuale dell’accollo da parte dell’ente del debito altrui;
• l’accollo, secondo la definizione che di tale istituto si ricava dall’art. 1273 c.c., è il contratto tra il debitore (accollato) e un terzo (accollante) in virtù del quale quest’ultimo si assume un debito del primo verso un creditore (accollatario);
• l’accollo dell’ente deve rispondere al perseguimento di un rilevante e preminente interesse pubblico, «la cui esistenza va motivata alla luce degli scopi istituzionali e della necessità di perseguire i canoni di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.; artt. 1 e 3, legge n. 241 del 1990), soprattutto, in termini di razionalità economica» (ex multis: Sezione di controllo Lombardia, Deliberazione n. 30/2015/PAR).
Alla luce di quanto sopra espresso, risulta evidente che in capo agli amministratori locali grava una responsabilità significativa, poiché essi sono chiamati ad assumere decisioni anche in ordine ad un organismo partecipato in fallimento.
7. La c.d. 'riforma Madia'
Il tema della fallibilità delle società in mano pubblica è affrontato di petto dalla cd. “Riforma Madia” (legge 7 agosto 2015, n. 124).
In particolare, l’art. 14 della bozza di decreto delegato relativo alle società a partecipazione pubblica prevede che:
• le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e a quelle sul concordato preventivo. Nei 5 anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società in controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, le Amministrazioni pubbliche controllanti non potranno costituire nuove società, né acquisire partecipazioni in società già costituite o mantenere partecipazioni in società qualora le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella dichiarata fallita;
• le società a controllo pubblico dovranno adottare con deliberazione assembleare, su proposta dell’organo amministrativo, specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale, al fine di prevenirne la formazione. Qualora da tale valutazione emergano uno o più indicatori di crisi, l’organo amministrativo dovrà adottare senza indugio un idoneo programma di risanamento, contenente i provvedimenti necessari per evitare l’aggravamento della crisi, per correggere gli effetti negativi e per eliminarne le cause. È importante richiamare l’attenzione sulle responsabilità dell’organo amministrativo: in caso di fallimento o concordato preventivo la mancata adozione di provvedimenti da parte di tale organo costituisce “grave irregolarità” ai sensi dell’art. 2409 del Codice Civile (denunzia al tribunale), con tutte le conseguenze negative che da ciò possono derivare. Un semplice piano di ripiano delle perdite da parte delle Amministrazioni pubbliche socie non può essere considerato un provvedimento adeguato, a meno che non sia accompagnato da un piano di “ristrutturazione aziendale”, dal quale risulti che sussistono concrete possibilità di recupero dell’equilibrio economico delle attività svolte dalla società.
8. Conclusioni
L’analisi svolta evidenzia come la questione dell’insolvenza delle società a partecipazione pubblica possa (rectius potesse) essere esaminata secondo due diversi metodi di indagine, delineati da dottrina e giurisprudenza (F. NICOTRA).
Secondo un primo metodo c.d. “tipologico”, il quesito dell’assoggettabilità o meno a fallimento della società a capitale pubblico dovrebbe essere affrontato cercando di individuare la natura giuridica di quest’ultima, nel senso di stabilire se essa sia qualificabile in termini di soggetto privato (fallibile) o di ente pubblico (esclusa dal fallimento).
Tale orientamento, tuttavia, non sempre conduce a risultati univoci. In proposito, mentre un’interpretazione tradizionale ribadisce sempre e comunque la natura privata della società in mano pubblica stabilendone l’assoggettamento alla disciplina fallimentare, contrapposti orientamenti giurisprudenziali ritengono che, in presenza di specifici indici sintomatici, una società a partecipazione pubblica possa essere qualificata come soggetto sostanzialmente pubblico (con conseguente esenzione dal fallimento).
Secondo un altro orientamento, basato su un metodo c.d. “funzionale”, il problema non è tanto quello di qualificare la società in mano pubblica come ente privato o pubblico, quanto piuttosto quello di stabilire se nella specifica materia di riferimento debba trovare applicazione la disciplina privatistica o quella pubblicistica. L’applicazione di questo metodo conduce ad affermare l’esenzione dal fallimento delle società in mano pubblica che presentino il carattere della necessità.
Negli stessi termini si pone la questione se – da parte delle società a partecipazione pubblica – sia possibile ricorrere alle altre procedure concorsuali previste dal nostro ordinamento e, innanzitutto, al concordato preventivo.
Aderendo alla tesi per cui è attività commerciale ogni attività diversa da quella agricola e per cui, ai fini dell’assunzione della qualifica d’imprenditore, non è necessario che l’attività esercitata sia la prevalente o l’esclusiva, ne potrebbe conseguire che anche l’attività della società in house (sebbene indirizzata a favore dell’Ente o Enti partecipanti), se svolta secondo criteri di economicità e imprenditorialità, non dovrebbe sfuggire alla qualificazione imprenditoriale. Pertanto, ricorrendo gli altri requisiti previsti dalla legge, la società in house potrebbe accedere al concordato preventivo, all’accordo di ristrutturazione dei debiti ed essere assoggettata a fallimento.
In proposito, come per il fallimento, differenti sono gli esiti derivanti dall’applicazione del metodo “tipologico” o di quello “funzionale” (F. NICOTRA).
A quest’ultimo riguardo, nel caso in cui si applichi il metodo tipologico, dando così rilevanza alla natura giuridica del soggetto debitore, l’affermazione della natura sostanzialmente pubblica del soggetto implica come conseguenza l’esclusione dello stesso non solo dal perimetro delle imprese fallibili, ma anche da quello delle imprese assoggettabili a concordato preventivo.
In senso opposto, ove si applichi il metodo funzionale, che lega l’esenzione dalla procedura concorsuale al carattere della necessità della società, inteso come preordinazione della stessa allo svolgimento di determinati servizi essenziali destinati al soddisfacimento di bisogni collettivi, e, dunque, alla tutela dell’interesse pubblico alla continuità del servizio, vengono meno le ragioni che potrebbero impedire l’ammissibilità del concordato preventivo. Ciò, anche tenuto conto del fatto che, in quest’ultima ipotesi, non si produrrebbero quegli stessi effetti che tradizionalmente vengono invocati per escludere il ricorso alla procedura fallimentare. Con riferimento alla tutela dell’interesse pubblico alla continuità del servizio, viene inoltre rilevato che, nell’ambito del concordato, l’apertura della procedura non impone l’interruzione dell’attività d’impresa che normalmente consegue alla dichiarazione di fallimento (art. 42 l. fall.), né lo spossessamento del debitore.
Infine, con particolare riferimento al concordato preventivo con continuità aziendale, l’ammissione alla procedura non porta con sé l’interruzione nello svolgimento del servizio pubblico, in quanto l’art. 186-bis, l. fall., esclude da un lato, che tale procedura impedisca la partecipazione alla gara pubblica, anche in raggruppamento temporaneo con altre imprese, e, dall’altro lato, che si faccia applicazione di quelle previsioni di legge e contrattuali che, per effetto dell’apertura della procedura, prevedono la risoluzione dei contratti sia privati che pubblici in corso d’esecuzione, la cui prosecuzione è anzi agevolata dal divieto di azioni esecutive individuali.
Ma anche il concordato preventivo meramente liquidatorio non pone problemi di compatibilità con la tutela dell’interesse pubblico, in quanto, la scelta di non proseguire l’attività d’impresa, è assunta dalla stessa società in sede di piano di concordato, senza essere imposta dal Tribunale con il provvedimento di ammissione.
La dottrina ammette, inoltre, il ricorso da parte delle società a capitale pubblico, anche nell’ipotesi in cui si affermi l’esenzione dal fallimento, agli accordi di ristrutturazione dei debiti, ciò muovendo dal disposto dell’art. 182-bis l. fall., che si limita a richiedere in capo al soggetto che vi fa ricorso la mera qualità di “imprenditore” (C. TRENTINI).
In conclusione, la problematiche connesse al variegato mondo delle società partecipate dagli enti pubblici ed all’esatto inquadramento giuridico delle stesse, rappresentano uno degli esempi più attuali delle sempre maggiori forme di intersecazione tra diritto pubblico/amministrativo e diritto civile che si riflette sul tema dell’assoggettabilità delle società a capitale pubblico al fallimento e alle altre procedure concorsuali.
In assenza di una disciplina specifica, la materia non ha ancora trovato una soluzione uniforme, essendo state elaborate – alla luce dei principi e delle disposizioni normative vigenti – di volta in volta soluzioni differenti sulla base degli elementi concreti che caratterizzano la varie fattispecie societarie. Unica eccezione sembra rinvenibile nella materia delle società in house, ove prevalgono argomentazioni che possono porsi come indici di univocità e di armonizzazione che fanno propendere per la esenzione dal fallibilità.
Di fronte ad un quadro così frammentato, il quale presenta ancora elementi di incertezza, parte della dottrina auspicava – da tempo – un intervento del legislatore in materia, volto, per esempio, ad introdurre una procedura di insolvenza speciale per quelle società che soggettivamente (perché a capitale pubblico) o oggettivamente (perché di interesse strategico o di rilevanza nazionale) non possono essere assoggettate al regime generale.
E il legislatore, nell’ambito della riforma della Pubblica Amministrazione, ha quindi deciso di risolvere normativamente la questione.
Le società partecipate potranno, quindi, fallire: saranno inequivocabilmente soggetti alle norme in materia di fallimento, concordato preventivo e amministrazione delle grandi imprese in crisi. E le società a partecipazione pubblica non potranno continuare sine die a drenare risorse agli enti soci, in quanto il ripianamento delle perdite – anche se attuato con aumento di capitale o trasferimento di partecipazioni – non sarà più la via maestra per continuare a mantenersi in linea di galleggiamento. Sarà – per contro necessario – un piano di ristrutturazione aziendale, da cui emergano “concrete prospettive di recupero”.
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