Diritto ed Economia dell'ImpresaISSN 2499-3158
G. Giappichelli Editore

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La vita travagliata dell'anatocismo bancario e il suo (definitivo) approdo legislativo (di L.M. Quattrocchio V. Bellando R. Monchiero)


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SOMMARIO:

1. Premessa - 2. L'anatocismo sul piano tecnico - 3. L'anatocismo nella disciplina positiva - 4. Analisi d'impatto dell'eliminazione dell'effetto anatocistico - 5. Conclusioni - Note


1. Premessa

L’anatocismo bancario, soprattutto nell’ambito dei rapporti di conto corrente, ha avuto un lungo e travagliato iter normativo, che ha condotto – dapprima – alla sua eliminazione, con la legge 27 dicembre 2013, n. 147, e – infine – ad un suo parziale ripristino, in sede di conversione del d.l. 14 febbraio 2016, n. 18, ad opera della legge 8 aprile 2016, n. 49. Scopo del presente lavoro è, anzitutto, verificare quale sia l’impatto del­l’ultima versione dell’art. 120, comma 2, TUB, sia sul piano civilistico sia sotto il profilo penale, tenuto conto dell’intero impianto normativo e regolamentare. Un’affrettata lettura di sistema potrebbe, infatti, indurre ad un’erronea considerazione degli effetti dell’abolizione dell’anatocismo, soprattutto in termini di ricalcolo del Tasso Effettivo Globale (T.E.G.), giacché le Istruzioni della Banca d’Italia – che si sono succedute nel tempo – prevedono che il primo addendo della formula di calcolo rechi al denominatore i “numeri debitori”, costituiti dal “prodotto tra i ‘capitali’ ed i ‘giorni’”. Infatti, ove si attribuisse a tale previsione un significato non “finanziariamente orientato” si correrebbe il rischio di prevenire a risultati abnormi in termini di superamento del c.d. “tasso soglia”, con i noti effetti di natura sia penale (art. 644, comma 3, c.p.) sia civilistica (art. 1815, comma 2, c.c.). Si impone, quindi, agli studiosi e agli operatori un nuovo sforzo interpretativo, che tenga conto sia dell’analisi d’impatto di un’eventuale lettura approssimativa sia una corretta lettura “di sistema”; ciò anche sul riflesso che la giurisprudenza non pare univocamente orientata [1].


2. L'anatocismo sul piano tecnico

2.1. Premessa Negli ultimi vent’anni la questione relativa alla legittimità dell’anatoci­smo [2] ha portato in evidenza una profonda cesura fra tecnica finanziaria e diritto civile [3]. Infatti, da una parte, il regime dell’interesse composto è considerato – dalla matematica finanziaria, prima ancora che dalla tecnica finanziaria – il regime naturale; dall’altra, l’anatocismo – proprio del regime dell’interesse composto – ha formato oggetto di accesa critica, nell’ambito tanto del diritto civile quanto del diritto bancario. 2.2. Le differenze tecniche tra anatocismo e capitalizzazione L’anatocismo, dal greco anà – nel significato di “sopra” – e tokòs – nel significato di “prodotto” –, ossia “interesse prodotto sull’interesse”, trova la sua origine nel regime della capitalizzazione composta: gli interessi generati da un determinato capitale sono liquidati alla fine di ciascun periodo e sommati al capitale che li ha generati, per determinare il montante che a sua volta produrrà interessi nel periodo successivo. Occorre preliminarmente osservare che la matematica finanziaria fornisce varie nozioni di tasso di interesse – quali, tra le altre, il “Tasso Annuo”, il “Tasso Periodico”, il “Tasso Effettivo”, il “Tasso Nominale”, il “Tasso Reale”, ecc. – con significati profondamente diversi. Per quanto di interesse in questa sede, il “Tasso (Annuo) Nominale” è il tasso di interesse rapportato ad anno; esso può essere capitalizzato n volte all’anno, con n che può assumere valori da zero a +∞ (tendente ad infinito) [4]. La capitalizzazione degli interessi n volte all’anno determina la “trasformazione” in capitale degli interessi maturati alla fine di ciascun periodo, con la conseguenza che, nel periodo successivo, gli interessi maturati nel periodo precedente – e oggetto di capitalizzazione – perdono la natura di interessi ed assumono quella di capitale. Quanto più frequente è la capitalizzazione infrannuale (ciò che si verifica al crescere di n e, cioè, della periodicità), tanto maggiore è la [continua ..]


3. L'anatocismo nella disciplina positiva

3.1. L’anatocismo nel codice civile Come è noto, nel nostro ordinamento l’anatocismo – per così dire, “di diritto comune” – è espressamente disciplinato dall’art. 1283 c.c., il quale recita testualmente: “In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi”. L’art. 1283 c.c. prevede quindi tre eccezioni al divieto di anatocismo e più precisamente: – l’anatocismo è ammesso (soltanto) per gli interessi che maturano “dal giorno della domanda giudiziale”: se un decreto ingiuntivo riguarda un ammontare comprensivo di una parte di capitale e di una parte di interessi non pagati, l’intera somma viene riconosciuta come un debito indistinto su cui maturano ulteriori interessi; – l’anatocismo è consentito nel caso di conclusione di una “convenzione posteriore alla scadenza” degli interessi: in tale ipotesi, la somma maturata fino alla convenzione si intende come nuovo capitale prestato e sul totale di tale importo possono maturare nuovi interessi. – l’anatocismo è ammesso in “mancanza di usi contrari”. La norma risponde a due finalità ben precise: in primo luogo, contrastare fenomeni di natura prettamente usuraia; in secondo luogo, consentire al debitore il calcolo dei costi che deriverebbero dall’eventuale inadempimento del­l’obbligazione di pagamento di un proprio debito. Si noti infine che altra norma di particolare rilievo è quella contenuta nel­l’art. 1194, comma 2 c.c., a mente del quale “Il pagamento fatto in conto di capitale e d’interessi deve essere imputato prima agli interessi”, che – per effetto della previsione di esigibilità postergata degli interessi, prevista dalla nuova formulazione dell’art. 120, comma 2, TUB – assume particolare rilevanza. 3.2. L’anatocismo nella legislazione bancaria L’anatocismo, nell’ambito della legislazione bancaria, è stato più volte oggetto di interventi normativi, regolamentari e di prassi. Nella sua versione iniziale, in vigore dal 1 gennaio 1994 al 18 ottobre 1999, il TUB [continua ..]


4. Analisi d'impatto dell'eliminazione dell'effetto anatocistico

4.1. Premessa. Le rimesse solutorie e le rimesse ripristinatorie Prima di procedere all’analisi d’impatto dell’eliminazione dell’effetto anatocistico, pare opportuno richiamare le nozioni di “rimesse solutorie” e “rimesse ripristinatorie”, tenuto conto della rilevanza della distinzione ai fini dell’applicazione dell’art. 1194, comma 2, c.c., secondo cui “Il pagamento fatto in conto di capitale e d’interessi deve essere imputato prima agli interessi”. Nella tecnica bancaria, le “rimesse” corrispondono ai versamenti effettuati dal correntista sul conto corrente e – a seconda dei casi – assumono la natura di “rimesse solutorie” oppure di “rimesse ripristinatorie”. La Corte di Cassazione, nella nota sentenza resa a Sezioni Unite [8], fornisce una chiara distinzione fra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie, nei seguenti termini: – le rimesse solutorie sono i versamenti effettuati su un conto corrente per il quale vi sia stato uno sconfinamento oppure su un conto corrente non affidato; – le rimesse ripristinatorie sono i versamenti effettuati dal correntista su un conto corrente con saldo rientrante nei limiti del plafond di affidamento. La distinzione fra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie assume – tra l’altro – rilevanza ai fini della prescrizione del diritto alla ripetizione del­l’indebito. In particolare, nel caso di rimesse solutorie, il termine decennale – da computarsi (dies ad quem) avendo riguardo al primo atto interruttivo ovvero alla data di notifica – decorre dall’annotazione della rimessa; per contro, il termine decennale decorre (dies a quo) dalla chiusura del conto nel caso in cui la rimessa (a copertura delle competenze maturate nel trimestre precedente) abbia natura ripristinatoria. In particolare, le Sezioni Unite hanno chiarito che: “Se, pendente l’apertura di credito, il correntista non si sia avvalso della facoltà di effettuare versamenti, pare indiscutibile che non vi sia alcun pagamento da parte sua, prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato. In tal caso, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo di interessi in misura non consentita, l’eventuale azione di ripetizione d’indebito non [continua ..]


5. Conclusioni

Le considerazioni svolte conducono a ritenere che, a dispetto della vituperata reintroduzione dell’anatocismo, l’approdo legislativo abbia condotto ad un suo (soltanto) parziale ripristino. Anzi, se la modifica all’art. 120, comma 2, TUB fosse stata più correttamente bilanciata, la reintroduzione sarebbe stata soltanto virtuale; con un effetto sostanzialmente analogo a quello che già si produceva – ove vi fossero rimesse solutorie – nel vigore della disciplina che consentiva l’anatocismo trimestrale. Inoltre, come si è avuto modo di constatare, il T.E.G. (rettificato) non subisce – in presenza di rimesse solutorie – un aumento tale da “forzare” il superamento del tasso soglia. Rimane, quindi, da esaminare il solo caso – che si verifica prevalentemente in ipotesi di rimesse ripristinatorie – in cui l’elimi­nazione dell’effetto anatocistico (anche) dal denominatore del primo addendo della formula di calcolo conduce ad un’“esplosione” del T.E.G. Sulla questione, la giurisprudenza si era già pronunciata – con specifico riguardo all’ipotesi di anatocismo legittimo –, ritenendo che [10] “la capitalizzazione degli interessi passivi non possa essere considerata ai fini del computo del tasso soglia e ciò perché mediante tale capitalizzazione (come già detto legittima successivamente alla delibera C.I.C.R. del 2000), il debito da interesse passivo viene conglobato nel capitale, così mutando di regime giuridico, da obbligazione accessoria d’interessi a obbligazione principale per sorte capitale […]. Avuto riguardo alla formula di computo del TEG, sostenere che nel calcolo del tasso soglia occorra depurare il capitale dell’effetto della capitalizzazione degli interessi è incongruo: infatti, così come “gli interessi sugli interessi maturati nei trimestri precedenti” devono essere ricompresi nel numeratore, del pari gli interessi maturati nei trimestri precedenti non possono essere espunti dal denominatore; non si potrebbe d’altronde sostenere che il denominatore debba essere depurato degli interessi maturati nei trimestri precedenti, così da includere soltanto il capitale originario. In tale ipotesi, infatti, si raffronterebbero dati non omogenei fra loro (il numeratore ricomprendente gli interessi sugli [continua ..]


Note