home / Archivio / Fascicolo / L'insolvenza dei gruppi
indietro stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo
L'insolvenza dei gruppi
Luciano M. Quattrocchio
Articoli Correlati: insolvenza dei gruppi
Sommario:
1. Premessa - 2. L'insolvenza dei gruppi di imprese - 3. Conclusioni - Riferimenti di dottrina - Riferimenti di giurisprudenza
1. Premessa
Il fenomeno economico del gruppo di imprese ha avuto crescente diffusione nel nostro Paese, al punto che la strutturazione nella forma di gruppo di società è ormai diventata il modello organizzativo abituale di tutte le grandi imprese, nazionali e multinazionali: esso si caratterizza per la presenza di una pluralità di imprese che svolgono la loro attività come componenti di un unitario centro di organizzazione economica imprenditoriale. In tale prospettiva, viene anche comunemente definito come un’aggregazione di imprese formalmente autonome ed indipendenti l’una dall’altra, ma assoggettate ad una direzione unitaria.
E il principale elemento di differenziazione del gruppo di imprese in senso proprio, rispetto a fenomeni che realizzano comunque un raggruppamento (quali, ad esempio, i consorzi o le diverse forme di joint venture) viene individuato dagli interpreti proprio nella direzione unitaria che la società capogruppo (o società-madre) esercita nei confronti delle partecipate (o società-figlie), sia perché partecipa direttamente al capitale di queste ultime (c.d. controllo interno o diretto) sia in forza di vincoli contrattuali (c.d. controllo esterno o contrattuale).
Occorre, tuttavia, considerare che la nozione di gruppo è comprensiva anche del fenomeno del c.d. gruppo in senso orizzontale o paritetico, che nasce propriamente da un accordo tra imprese giuridicamente distinte, le quali si sottopongono volontariamente ad una direzione unitaria, senza peraltro che l’una abbia il controllo o un’influenza dominante sulle altre.
Il gruppo sotto il profilo economico viene – quindi – considerato in termini di impresa unitaria, anche se sul piano giuridico questa ricostruzione è accolta soltanto da una parte della dottrina e della giurisprudenza. Essa ha trovato la sua illustrazione più importante nel pensiero di Francesco Galgano, secondo il quale il gruppo di società rappresenta una particolare forma di organizzazione imprenditoriale in cui l’impresa esercitata dalla holding e dalle controllate è unica e di essa sono titolari tutte le società che lo compongono. Più in particolare, in esso la funzione di direzione e controllo è riservata alla capogruppo, mentre le funzioni operative sono affidate alle controllate; inoltre, la capogruppo esercita un’attività imprenditoriale non in ragione della direzione, ma in quanto, in via mediata e indiretta, svolge l’attività delle controllate, che viene così a far parte del proprio oggetto sociale.
E del resto, sempre in questa visuale, si sottolinea come l’unitarietà del gruppo e il superamento delle distinte personalità giuridiche delle società che lo compongono possono trovare conferma in una serie di elementi quali l’utilizzo dei marchi da parte delle controllate, il consolidamento del bilancio, la considerazione unitaria del gruppo nelle controversie di concorrenza sleale, i riflessi dell’appartenenza al gruppo in ambito penalistico e lavoristico (F. GALGANO; Trib. Milano 20 dicembre 2004; Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439).
Sul versante opposto l’opinione maggioritaria riconosce nel gruppo un fenomeno unitario solo sul piano economico, mentre sul terreno giuridico permane la distinzione fra le varie società (U. TOMBARI). Al riguardo numerosi e risalenti nel tempo sono gli arresti della giurisprudenza. E così: «se il gruppo di società aventi ciascuna autonoma personalità, ma costituito a tutela di comuni interessi economici (holding), può essere considerato unitario sotto il profilo economico, ciò, invece, non può assolutamente ritenersi sotto il profilo giuridico-tributario» (Cass. 2 marzo 1964, n. 472); «la figura del gruppo di società costituisce nel nostro ordinamento giuridico una formula descrittiva di un fenomeno di natura meramente economica, giuridicamente rilevante solamente nelle materie espressamente regolate da specifiche disposizioni di legge e per i fini in queste previsti» (App. Roma 1° luglio 1985); «il gruppo di imprese non costituisce un soggetto giuridico o comunque un centro di interessi autonomo rispetto alle società collegate» (Cass. 8 maggio 1991, n. 5123; Id. 21 gennaio 1999, n. 521; ID. 17 luglio 2007, n. 15879).
Peraltro, in tale contesto, non mancano segnali parzialmente divergenti dall’orientamento maggioritario sul terreno lavoristico, ove viene sottolineato come l’esistenza delle distinte personalità giuridiche non vale ad escludere «la possibilità di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro – anche ai fini della sussistenza o meno del requisito numerico necessario per l’applicazione della cosiddetta tutela reale del lavoratore licenziato – ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra vari soggetti» (Cass. lav. 3 agosto 1991, n. 8532).
E ancora, sempre in questa logica contrastante, il gruppo di società è considerato come un’unica impresa anche per il diritto comunitario della concorrenza, con la conseguenza che «la ripartizione dei mercati, attuata da società appartenenti al medesimo gruppo, non integra perciò l’estremo della intesa fra gruppi o delle pratiche concordate che impediscano, restringano o falsino il gioco della concorrenza» (F. GALGANO). E questa posizione è stata assunta dalla Commissione (decisione 13 luglio 1996) e condivisa dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Relazione annuale per il 1990).
Per quanto concerne il marchio di cui sia titolare la controllante, l’art. 19 del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, prevede che «può ottenere una registrazione per marchio d’impresa chi lo utilizzi, o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso».
Tali considerazioni, insieme con la disciplina di cui agli artt. 2497 ss. c.c. introdotta dalla riforma del 2003, hanno contribuito – per così dire – a riavvicinare in una tesi mediana la dicotomia unità-pluralità del gruppo.
Così, se per un verso la holding è impresa non in quanto svolga in via mediata l’attività delle controllate, ma in quanto esercita un’attività di prestazione di servizi e compravendita di partecipazioni, per altro verso resta indipendente da tale attività quella della direzione. Ed è proprio nella direzione e coordinamento dell’attività della holding che il gruppo assume evidenti connotati di unitarietà anche sul terreno giuridico, attraverso il riconoscimento da parte della norma di un particolare valore organizzativo alla controllante nei confronti delle controllate. Al punto da statuire che la responsabilità per i danni provocati dalle direttive impartite può non sussistere «alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento».
Sotto tale profilo, è difficile negare che l’unitarietà anche giuridica del gruppo non sia entrata a far parte dei principi del nostro ordinamento. E del resto questa osservazione trova ulteriore conferma dissodando più a fondo il concetto di direzione e coordinamento introdotto dalla riforma che – come è stato osservato (F. GUERRERA) – legittima il trasferimento del potere amministrativo e gestorio dalla controllata alla capogruppo, comportando il venir meno della piena ed incondizionata “autonomia gestionale (e giuridica)” della società diretta e coordinata. Ne discende una significativa alterazione del sistema delle competenze organiche delle società dipendenti, dal momento che gli amministratori di una società diretta e coordinata possono essere privati del potere di definire le linee strategiche della propria società e di alcuni poteri di gestione ordinaria, a seconda del maggiore o minor grado di accentramento del gruppo; inoltre, essi devono collaborare con la capogruppo nel perseguimento delle politiche di gruppo ed eseguirne le direttive che non contrastino con i principi di corretta gestione societaria.
In questa prospettiva, si ritiene che «qualora la direttiva impartita dalla capogruppo sia “legittima”, il sistema legale delle competenze e – più in generale – il dovere di gestire con diligenza e nel rispetto dell’interesse sociale impongono all’organo amministrativo di una società per azioni diretta e coordinata di attuarla, esponendosi in caso contrario ai rimedi riconosciuti dal diritto azionario in presenza di comportamenti illegittimi degli amministratori (revoca per giusta causa, azione di responsabilità, se il fatto ha causato dei danni, ecc.)» (P. MONTALENTI).
Dunque ben poco resta dell’autonomia delle società del gruppo, per cui può dirsi che l’unitarietà giuridica – e non solo di fatto – del gruppo fa ormai parte dei principi del nostro ordinamento.
Naturalmente un tale criterio organizzativo del gruppo deve a sua volta tradursi in regole di comportamento per gli organi delle società madri e delle controllate e i capisaldi delle predette regole sono ora contenuti negli artt. 2497 ss. c.c., che delineano i fondamentali momenti dello statuto organizzativo di una “società di gruppo”; anche se non bisogna dimenticare i “frammenti di disciplina di una società per azioni di gruppo” contenuti in diverse disposizioni sulle società per azioni ed introdotte dalla riforma:
• l’obbligo imposto agli organi delegati di riferire al consiglio di amministrazione ed al collegio sindacale sulle operazioni di maggior rilievo effettuate dalla società o dalle sue controllate (art. 2381, comma 5, c.c.);
• le disposizioni in tema di operazioni con parti correlate (art. 2391-bis c.c. e relativo regolamento);
• il potere del collegio sindacale di chiedere agli amministratori notizie, anche con riferimento a società controllate, sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari, nonché di scambiare informazioni con i corrispondenti organi delle società controllate in merito ai sistemi di corporate governance ed all’andamento dell’attività ovvero il potere di collaborare tra organi di controllo delle società del gruppo in deroga ai consueti doveri di riservatezza (art. 2403-bis, comma 2, c.c.);
• la denuncia al tribunale ex art. 2409 c.c. per il caso di gravi irregolarità degli amministratori della controllante, potenzialmente dannose per le controllate;
• le norme negli artt. 150, 151-bis e 151-ter t.u.f., in tema di poteri-doveri di informazione all’interno dei gruppi ai quali partecipano società quotate.
Dunque, in definitiva, seppure non nei termini originariamente invocati da Galgano, la marcia verso una nozione unitaria del gruppo in aderenza ai profili sostanziali ed economici del fenomeno è proseguita in questi anni, trovando, nella disciplina della direzione e coordinamento introdotta dalla riforma del 2003, il suo passepartout verso una sua affermazione, che non può non esplicare i suoi effetti anche sul terreno dell’insolvenza.
Fatta questa premessa, allorquando ci si confronta con la ristrutturazione dell’indebitamento di un gruppo di imprese con l’obiettivo di coordinare al meglio le diverse procedure concorsuali delle varie società costituenti lo stesso, viene in considerazione una serie di problematiche oramai piuttosto note alla prassi giurisprudenziale e che, ultimamente, hanno ricevuto nuove ed interessanti soluzioni.
Ciò in quanto una disciplina più o meno organica dell’insolvenza del gruppo societario è (al momento) presente nel nostro ordinamento soltanto in ipotesi di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi di cui al d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, disciplinata anche dal successivo d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, poi convertito con modifiche nella legge 18 febbraio 2004, n. 39 (la c.d. “Legge Marzano”); con la conseguenza che i professionisti che assistono i gruppi in crisi si trovano a dover gestire problematiche tutt’altro che banali. E, sebbene sia opinione diffusa che ogni società debba predisporre il proprio strumento di risanamento, destinato a ricevere autonoma valutazione, la prassi ha messo a punto soluzioni più o meno originali per realizzare il c.d. concordato di gruppo, onde assicurare una gestione unitaria dell’insolvenza.
Le soluzioni via via proposte, tuttavia, sono state spesso giudicate incompatibili con le norme legislative in vigore, a partire da quelle – inderogabili – relative alla competenza per territorio. Invero, l’art. 161, comma 1, l. fall., non prevede – ai fini dell’individuazione del tribunale territorialmente competente a pronunciarsi, ad esempio, sull’ammissione (e, quindi, sull’omologazione) di una proposta di concordato preventivo – l’attrazione degli altri fori a favore di quello della capogruppo, ovvero di altro foro, allorché le società coinvolte abbiano sede legale in circondari diversi. La competenza ad accertare lo stato d’insolvenza appartiene, infatti, solo al tribunale del luogo in cui l’impresa ha la sede principale, senza che a tale criterio possa derogarsi per ragione di connessione con altre procedure relative a società diverse facenti parte di un gruppo (Cass. 31 agosto 2011, n. 17907).
E proprio sotto il richiamato profilo della competenza e di altri di cui si dirà in appresso, il tentativo che ha avuto più ampia diffusione nella pratica professionale – consistente nel conferimento delle attività e delle passività in una società di nuova costituzione (normalmente una società di persone, onde evitare la relazione di stima), così da realizzare una sorta di “concentrazione” delle masse – è stato recentemente sconfessato dalla Corte di Cassazione (Cass. 13 ottobre 2015, n. 20559).
In particolare, ad avviso della Suprema Corte:
• l’operazione determina – inammissibilmente – l’attrazione di tutte le società alla competenza del tribunale in ragione della sede della s.n.c., in violazione dell’art. 161, comma 1, l. fall. (che non prevede deroghe alla competenza territoriale);
• il concordato preventivo deve – per contro – riguardare individualmente le singole società, non la s.n.c. in unione con le sue socie, non ammettendosi un unico giudizio omologatorio;
• in presenza di un concordato di diverse società, occorrere tenere distinte le masse attive e passive, che conservano la loro autonomia giuridica, mentre i conferimenti determinano la confusione dei patrimoni, con l’effetto che i creditori delle società più capienti concorrono – inammissibilmente – con quelli delle società meno capienti;
• le maggioranze per l’approvazione del concordato devono essere calcolate in riferimento alle singole società;
• il concordato preventivo della società non si estende in ogni caso ai soci illimitatamente responsabili, i quali beneficiano “solo” dell’effetto esdebitatorio ai sensi dell’art. 184, comma 2, l. fall., per i debiti sociali (e non per quelli personali).
In definitiva, l’operazione forza «il dato normativo – in particolare, gli artt. 161 l. fall. e 2740 c.c. – oltre i limiti che, a mezzo di una mera interpretazione ed in mancanza di una disciplina positiva del fenomeno (una legge che intenda disciplinare il concordato preventivo di gruppo dovrebbe verosimilmente occuparsi di regolarne la competenza, le forme del ricorso, la nomina degli organi, la formazione delle classi e delle masse), esso poteva ragionevolmente tollerare».
Ma qualcosa sembra profilarsi de jure condendo…
Come è noto, il disegno di legge delega predisposto in esito ai lavori della Commissione Rordorf, allo scopo di colmare tale lacuna dell’attuale legge fallimentare, detta le direttive cui dovrà attenersi il legislatore delegato nel disciplinare l’insolvenza, per le peculiarità e le esigenze che essa presenta quando riguarda non una singola impresa (in veste individuale o societaria che sia) bensì un gruppo d’imprese, e cioè una pluralità di società collegate ovvero controllate da un’unica holding.
D’altronde, la Corte di Cassazione – nella sentenza ora richiamata – ha affermato che «l’attuale sistema del diritto fallimentare… non conosce il fenomeno, non dettando alcuna disciplina al riguardo, che si collochi sulla falsariga di quella enunciata in tema di amministrazione straordinaria agli artt. 80 ss. della legge 8 luglio 1999, n. 270, o dall’art. 4-bis del d.l. 23 dicembre 2003, n. 347 sulla ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza, convertito, con modificazioni, in legge 18 febbraio 2004, n. 39, o con riguardo ai gruppi bancari od assicurativi insolventi».
D’altra parte, anche a livello europeo (si veda, in particolare, il Reg. (CE) n. 2015/848 sull’insolvenza transfrontaliera), numerose sono state le sollecitazioni rivolte al legislatore nazionale di colmare al più presto detta lacuna, specie a fronte della necessità – da tempo acutamente avvertita nella pratica – soprattutto per quel che riguarda le procedure di concordato preventivo, di una gestione coordinata delle procedure concorsuali relative alle diverse imprese del gruppo.
Il disegno di legge delega intende – appunto – rispondere a tali sollecitazioni, disponendo in via generale che «la crisi e l’insolvenza dei gruppi di imprese vanno specificamente disciplinate».
Il progetto di riforma, tuttavia, non intende fornire una nozione del gruppo nuova ed ulteriore rispetto a quella assunta dal codice civile all’esito della riforma organica del diritto societario intervenuta nel 2004, rinviando – quanto alla individuazione dello stesso – ad una definizione «modellata sulla nozione di direzione e coordinamento di cui agli articoli 2497 e seguenti, nonché 2545-septiesdel codice civile».
D’altra parte, allo scopo di facilitare l’accertamento dei legami di gruppo, il progetto di riforma stabilisce – sempre in via generale – non solo che, anche ai fini concorsuali, vale la «presunzione semplice di assoggettamento a direzione e coordinamento in presenza di un rapporto di controllo ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile», già stabilita dall’art. 2497-sexies c.c., ma conferma la necessità di prevedere «specifici obblighi dichiarativi, nonché il deposito del bilancio consolidato di gruppo, ove redatto, a carico delle imprese appartenenti ad un gruppo, a scopo di informazione sui legami di gruppo esistenti, in vista del loro assoggettamento a procedure concorsuali», nonché «il potere dell’organo di gestione della procedura di richiedere alla CONSOB, o a qualsiasi altra pubblica autorità, informazioni utili ad accertare l’esistenza di collegamenti di gruppo, nonché di richiedere alle società fiduciarie le generalità degli effettivi titolari di diritti sulle azioni o sulle quote ad esse intestate».
In tale prospettiva, il progetto di riforma contiene disposizioni volte a consentire lo svolgimento di una procedura unitaria per la trattazione dell’insolvenza delle imprese del gruppo, individuando, a tal fine, criteri di competenza territoriale idonei allo scopo, e prevedendo comunque che – anche in caso di procedure distinte che si svolgano in sedi giudiziarie diverse – vi siano obblighi di reciproca informazione a carico degli organi di tali procedure.
Inoltre, come si avrà modo di porre in evidenza, anche la disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi è destinata a fare un ulteriore passo avanti verso la considerazione unitaria della crisi di gruppo.
2. L'insolvenza dei gruppi di imprese
2.1. L’insolvenza dei gruppi di “diritto comune”. Lo status quo
2.1.1. Il fallimento di gruppo
Anzitutto deve essere affrontata la questione se sia possibile la dichiarazione di fallimento di un “gruppo”.
All’interrogativo non può che essere data risposta negativa, in quanto non esiste nel nostro ordinamento il “fallimento del gruppo”: la distinta personalità giuridica e l’autonomia patrimoniale di cui sono dotate le società appartenenti ad un medesimo gruppo, nonostante il vincolo derivante dal rapporto di collegamento o controllo, comportano che l’accertamento dello stato di insolvenza debba essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica di ogni singola società.
In tale prospettiva, la Suprema Corte (Cass. 18 novembre 2010, n. 23344) ha affermato il principio per cui: «Ai fini della dichiarazione di fallimento di una società, che sia inserita in un gruppo, cioè in una pluralità di società collegate ovvero controllate da un’unica società “holding”, l’accertamento dello stato di insolvenza deve essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica della società medesima, poiché, nonostante tale collegamento o controllo, ciascuna di dette società conserva propria personalità giuridica ed autonoma qualità di imprenditore, rispondendo con il proprio patrimonio soltanto dei propri debiti».
2.1.2. Il concordato preventivo di gruppo
2.1.2.1. Il contesto normativo
Come si è detto, manca nel nostro ordinamento una specifica disciplina in tema di concordato preventivo di gruppo. Infatti, come rilevato ormai da tempo dalla giurisprudenza di merito (si veda, fra le altre, Trib. Roma 7 giugno 2007), il legislatore della riforma fallimentare «non si è preso cura di affrontare e regolare l’insolvenza dei gruppi di impresa, neanche tenendo conto che l’istituto, sia pure limitatamente alla responsabilità, era stato regolato dalla riforma societaria attraverso l’art. 2497». Il che costituisce una lacuna non marginale ove si osservi che l’organizzazione in gruppo delle imprese costituisce, come si è già osservato, la realtà economica qualitativamente e numericamente più rilevante riscontrabile nel mercato. E sotto questo profilo – almeno con riguardo al concordato – non può certo dirsi che aiutino a superare del tutto la lacuna le norme contenute nella disciplina codicistica in tema di direzione e coordinamento di società (artt. 2497 ss. c.c.). Semmai qualche spunto argomentativo può essere tratto dalla regolamentazione dell’insolvenza “di gruppo” delle grandi imprese in crisi contenuta nel d.lgs. n. 270/1999 e, soprattutto, nella variante “Marzano” della disciplina dell’amministrazione straordinaria (v. supra).
Ciò nonostante, già prima della riforma fallimentare, si è affermata la necessità di realizzare procedure di concordati preventivi di gruppo. Ed anche in ragione dei contributi della dottrina si è venuto dipanando – sul tema – un fil rouge sempre più robusto attraverso cui ha preso forma “di fatto” questa figura, con la conseguenza che – almeno secondo alcuni autori – il piano sottostante al ricorso diretto ad ottenere l’apertura del concordato può essere unico e funzionale alla soluzione della crisi delle diverse società con una prospettiva omogenea di gruppo. Ciò comporta che anche il ricorso con il quale il tribunale viene investito della domanda di apertura della procedura può essere unico, pur se necessariamente sottoscritto dagli organi amministrativi e decisionali di ogni singola società, ferma restando la necessità che le proposte ai creditori, intesi come singole masse corrispondenti alla singola società debitrice, siano tenute distinte. La qual cosa ovviamente non osta a che le proposte siano contenute in un unico documento, che può formalmente coincidere anche con lo stesso ricorso ex art. 160 l. fall., unicamente rilevando che – nella distinzione concettuale esistente tra piano sottostante, ricorso al tribunale e proposte ai creditori – queste ultime devono essere specificamente riferite alle singole masse dei creditori. E in questo ambito viene sottolineata l’opportunità che ad essere unici siano il giudice delegato ed il professionista chiamato ad attestare la fattibilità del piano.
2.1.2.2. La posizione della giurisprudenza
Pur in assenza di una specifica disciplina sul punto, nel recente passato – cioè, prima della richiamata pronuncia della Corte di Cassazione – la giurisprudenza di merito ha tentato in varie occasioni di dare maggiore rilevanza alla realtà sostanziale e commerciale del fenomeno del gruppo, soprattutto con riferimento al concordato preventivo. In particolare, e in estrema sintesi:
• alcuni tribunali hanno riconosciuto il (solo) momento aggregativo delle situazioni delle varie società coinvolte nell’esame congiunto delle (separate) proposte di concordato preventivo, provenienti dai diversi soggetti (in tal senso, Trib. Perugia 3 marzo 1995, secondo il quale l’autonomia di ogni società appartenente a un gruppo di imprese non esclude che i giudici possano attribuire un ruolo rilevante all’esistenza di una aggregazione societaria cui fanno capo distinti interessi);
• altri, a fronte di distinti ricorsi delle società facenti parte di un gruppo, hanno adottato un unico decreto di ammissione, nominato un unico giudice delegato e un unico commissario giudiziale, nonché svolto un solo giudizio di omologazione – utilizzando lo strumento della riunione dei procedimenti –, emettendo, infine, un unico decreto. Il tutto continuando ad effettuare la valutazione in merito alla sussistenza dei requisiti e al raggiungimento delle maggioranze richieste, con riferimento a ogni singolo soggetto giuridico (in tal senso, Trib. Ivrea 21 febbraio 1995);
• un differente orientamento, pur muovendosi nel solco dei precedenti appena ricordati, si è spinto addirittura sino a prevedere una visione unitaria dell’attivo e delle possibilità di soddisfacimento dei creditori, con un’unica adunanza e il computo delle maggioranze riferito all’unico programma concordatario (Trib. Terni 30 dicembre 2010; Trib. Terni 19 maggio 1997);
• un altro indirizzo è giunto a validare la proposizione di un singolo ricorso per l’ammissione a concordato preventivo da parte di imprese costituenti un gruppo e a stabilire che le maggioranze per l’approvazione del concordato potessero addirittura essere calcolate con riferimento non a ciascuna impresa ma al gruppo (Trib. Crotone 28 maggio 1999);
• infine, altre pronunce – attraverso un approccio pragmatico con riferimento specifico alla problematica dell’appartenenza delle società del medesimo gruppo a circoscrizioni di tribunali differenti – hanno sottolineato la necessità di un’unica procedura, allorché esista interconnessione fra i soggetti richiedenti sotto il profilo gestionale, economico, finanziario e amministrativo, affermando il principio per cui tutte le partecipanti al gruppo avrebbero necessariamente la propria sede effettiva presso il luogo in cui la capogruppo ha la sede principale (Trib. Firenze 13 luglio 1992; Trib. Roma 16 dicembre 1997).
Quindi, pur in assenza di una espressa disciplina normativa che riconosca il concordato preventivo “di gruppo”, una parte della giurisprudenza di merito ha provato a fornire una lettura diversa e più aperta della questione, giungendo alle soluzioni dianzi richiamate.
Ma, oltre a tali pronunce, sono stati formulati ulteriori principi nell’ambito di alcuni leading cases.
Anzitutto, in un caso (Trib. Rovigo 5 novembre 2013), la giurisprudenza ha ammesso la presentazione di una proposta di concordato preventivo unitaria, avendo valutato la sussistenza – nella fattispecie sottoposta al proprio esame – di elementi oggettivi idonei a determinare una connessione funzionale tra le due società ricorrenti, quasi che vi fosse una sorta di identità sociale fra le imprese in crisi.
Ha, peraltro, precisato che l’esistenza di stretti rapporti fra società del medesimo gruppo non sarebbe di per sé idonea a giustificare la presentazione di un’unica proposta di concordato preventivo: è, infatti, necessario che sussista anche un interesse dei creditori e delle società ricorrenti allo svolgimento di un’attività unitaria in esecuzione della procedura (in particolar modo se di natura liquidatoria). E l’interesse dei creditori a che vi sia una procedura di gruppo dovrebbe essere legato ad un loro inequivocabile vantaggio di tale natura: ad esempio, una procedura di concordato preventivo unitaria potrebbe consentire una contrazione dei costi di procedura a beneficio dei creditori sociali, una rapida evoluzione dell’iter procedimentale, nonché – eventualmente – la soddisfazione sulla totalità del patrimonio del gruppo.
Ma anche in tale ipotesi, è sempre necessario tenere distinte le masse attive e passive fra le diverse società; infatti, i principi sanciti dall’art. 2470 c.c. vietano la confusione dei patrimoni, perché ciò determinerebbe la lesione del vincolo della divisione delle masse per il soddisfacimento dei propri creditori, che potrebbero essere penalizzati qualora si operasse con una mescolanza degli attivi e dei passivi (M. VITIELLO).
In aggiunta, dubbi significativi potrebbero nascere in ipotesi di risultati disomogenei nelle votazioni da parte dei creditori delle distinte società, con la conseguenza che – pur in presenza di una procedura unitaria – le adunanze dovrebbero essere tenute distinte, in quanto la maggioranza dei creditori di una società – diversamente dalle altre – potrebbe ritenere di non aderire alla proposta.
In definitiva, se da un lato può essere ipotizzabile la presentazione di un unico piano di concordato, e forse anche di un unico ricorso, con nomina di un unico giudice delegato e di un solo commissario giudiziale, sarebbe in ogni caso opportuno che le votazioni fossero mantenute separate, così come dovrebbero essere lasciate divise le masse attive e passive, nonché le maggioranze per l’approvazione o meno della proposta.
In un altro caso (Trib. Roma 18 aprile 2013, decr.), si è affermato che:
• è ammissibile, tanto sotto il profilo sostanziale, quanto sotto il profilo procedimentale, la presentazione – da parte di più società appartenenti allo stesso gruppo – di una proposta di concordato preventivo e di un piano nel segno della unitarietà, intesa nel senso dello stretto collegamento negoziale necessario fra le proposte rispettivamente promananti da ciascuna società e da questa rivolte ai propri creditori, purché la proposta unitaria avanzata dai soggetti componenti il gruppo tenga separate le componenti dell’attivo e quelle del passivo di ciascuna persona giuridica da quelle delle altre e – in riferimento a una proposta di concordato con cessione dei beni (nel senso lato in cui tale modalità di ristrutturazione dei debiti viene intesa dall’art. 160, lett. a, l. fall.) – preveda la disposizione a favore dei creditori di ciascuna società (e solo di costoro) di tutti gli elementi costituenti il patrimonio di questa. È inammissibile, per contro, la proposta unitaria di concordato da parte di società fra loro collegate da un vincolo di direzione e controllo che preveda l’attribuzione ai creditori di ciascuna società solo di parte del patrimonio di questa;
• solo l’omologazione dei concordati di tutte le società interessate consente la formazione di un consenso soggettivamente complesso sulla proposta e la fattibilità del piano unitariamente predisposto, mentre l’eventuale impedimento all’omologazione del concordato anche per una delle società costituisce ex se impedimento all’omologazione del concordato di ciascuna delle altre società del gruppo;
• l’esistenza di un rapporto di gruppo in senso stretto tra diverse società non determina il venir meno dell’autonoma personalità giuridica e dell’autonoma qualità di imprenditore di ciascuna società, che solo con il proprio patrimonio risponde esclusivamente dei suoi debiti; con la conseguenza che l’accertamento dello stato di insolvenza non può che riferirsi alla sola situazione economica della società nei confronti della quale lo stesso è sollecitato, nonostante il controllo cui la stessa è assoggettata.
Secondo l’impostazione accolta dal Tribunale di Roma, dunque, il concordato di gruppo si configura come una fattispecie giuridica complessa, caratterizzata dalla formulazione di una pluralità di proposte tra di loro collegate in vista del risultato unitario perseguito (vale a dire il superamento della crisi in cui versa ciascuna società del gruppo). Peraltro, tenuto conto del collegamento fra le proposte concordatarie presentate da una pluralità di società facenti parte del medesimo gruppo di imprese, vale il principio simul stabunt simul cadent, il quale impone – tra l’altro – di rendere edotti i creditori che l’eventuale mancata omologazione del concordato anche per una sola delle società del gruppo la impedisce anche per le altre società.
In un altro caso, la giurisprudenza (Trib. Palermo 4 giugno 2014) ha affermato che:
• è ammissibile il concordato di gruppo, fondato su un piano aziendale riferito all’“impresa di gruppo”, ove il piano risulti rispondente all’interesse dei creditori e favorisca un’attività liquidatoria unitaria, in virtù delle strette connessioni esistenti tra le imprese che ne fanno parte e preveda l’abbattimento dell’esposizione debitoria infragruppo, in modo tale da rendere possibile la prosecuzione dell’attività aziendale nel suo complesso attraverso l’intervento di un assuntore in forma di società appositamente costituita;
• nel concordato di gruppo, i rapporti che legano le varie imprese giustificano e legittimano sia una valutazione sostanziale sia una trattazione a livello procedurale unitaria del piano concordatario e quindi una gestione integralmente unitaria della procedura concorsuale, con una sola adunanza dei creditori e un computo delle maggioranze riferito non già ad ogni singola impresa bensì all’unico programma concordatario;
• nel concordato di gruppo, il piano e la relazione redatta dagli esperti attestatori devono tenere distinte le attività e passività di ogni singola impresa e devono consentire ad ogni singolo creditore di verificare la propria posizione creditoria e l’impatto della proposta concordataria sul loro soddisfacimento e l’alternativa in caso di liquidazione fallimentare.
Tralasciando altre pronunce di merito, è opportuno esaminare a fondo la pronuncia – già richiamata – della Corte di Cassazione (Cass. 13 ottobre 2015, n. 20559), descrivendo anche la fattispecie sottostante.
Nel 2010, alcune società di capitali – appartenenti ad un primario gruppo cantieristico navale – conferivano i propri complessi aziendali in una società in nome collettivo (costituita ad hoc), ricevendo in cambio una partecipazione al capitale sociale della stessa e divenendone soci illimitatamente responsabili.
L’operazione avveniva al dichiarato scopo di presentare un ricorso per concordato preventivo, così da garantire la conservazione e la continuità delle imprese, salvaguardandone patrimoni e occupazione, sotto la condizione risolutiva della mancata definitiva omologazione del concordato.
In tale prospettiva, la s.n.c. e le conferenti presentavano domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, che veniva ammessa dal Tribunale competente in ragione della sede della neo-costituita società di persone.
A distanza di circa un anno – nel 2011 – il concordato preventivo veniva omologato e – nel medesimo anno – la Corte d’Appello dichiarava inammissibile un reclamo (dell’Agenzia delle Entrate) e respingeva gli altri (di creditori privati).
La questione veniva quindi sottoposta alla Cassazione, che accoglieva il ricorso, sulla base delle considerazioni di seguito riportate:
• l’art. 161, 1° comma, l. fall., non prevede l’attrazione degli altri fori a favore di quello della capogruppo, o di altro foro, allorché le società coinvolte abbiano sede legale in circondari diversi;
• in assenza di una disciplina sul concordato di gruppo, la competenza ad accertare lo stato di insolvenza appartiene – dunque – al tribunale del luogo in cui la singola impresa ha la sede principale, senza che a tale criterio possa derogarsi per ragioni di connessione con altre procedure relative a società diverse facenti parte di un gruppo;
• in definitiva, permane sempre la competenza territoriale del Tribunale nel cui circondario l’impresa in stato di crisi ha la propria sede principale, ovverosia il luogo in cui si trova il centro direttivo ed amministrativo degli affari dell’impresa (Cass., SS.UU., 25 giugno 2013, n. 15872);
• in ogni caso, non è ammissibile il concordato preventivo di gruppo, in assenza di una disciplina positiva del fenomeno nel nostro ordinamento: infatti, «l’attuale sistema del diritto fallimentare non conosce il fenomeno del concordato di gruppo, e l’assenza di una disciplina positiva al riguardo, che ne regoli la competenza, le forme del ricorso, la nomina degli organi, le formazioni delle classi e delle masse, non può essere superata, in via interpretativa, mediante la presentazione di un unico piano concordatario per le società facenti parte del gruppo»;
• le maggioranze necessarie per l’approvazione del concordato devono essere calcolate in riferimento alle singole imprese del gruppo: non è ammissibile una procedura che non preveda adunanze separate, senza votazioni e maggioranze distinte per ciascuna società;
• non è, quindi, prospettabile un unico giudizio omologatorio per il gruppo: infatti, le proposte di concordato devono riguardare individualmente le singole società del gruppo, e – pur in presenza di società legate da un rapporto di controllo e soggette a direzione unitaria – vanno sempre tenute distinte le masse attive e passive, che conservano un’autonomia giuridica;
• il concordato preventivo della società non si estende ai soci illimitatamente responsabili, i quali beneficiano solo dell’effetto esdebitatorio ex art. 184, comma 2, l. fall., limitatamente ai debiti sociali e non per quelli personali.
In definitiva, conclude la Cassazione, «la descritta operazione ha forzato il dato normativo, in particolare gli artt. 161 l. fall. e 2740 c.c., oltre i limiti che, a mezzo di una mera interpretazione ed in mancanza di una disciplina positiva del fenomeno (una legge che intenda disciplinare il concordato preventivo di gruppo dovrebbe verosimilmente occuparsi di regolarne la competenza, le forme del ricorso, la nomina degli organi, la formazione delle classi e delle masse), essa poteva ragionevolmente tollerare».
D’altronde, «l’attuale sistema del diritto fallimentare, in particolare per quanto attiene al concordato preventivo, non conosce il fenomeno, non dettando alcuna disciplina al riguardo, che si collochi sulla falsariga di quella enunciata in tema di amministrazione straordinaria alla L. 8 luglio 1999, n. 270, art. 80 e ss., o dal D.L. 23 dicembre 2003, n. 347, art. 4 bis, sulla ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza, convertito, con modificazioni, in L. 18 febbraio 2004, n. 39, o con riguardo ai gruppi bancari od assicurativi insolventi».
In ogni caso, «L’operazione societaria posta in atto nella vicenda in esame …, con la costituzione della nuova società nella sede ligure in funzione esclusiva della competenza del tribunale fallimentare del circondario, e la successiva presentazione di un unico piano concordatario per questa e per le sue socie, dunque per la “impresa di gruppo”, non può superare in via interpretativa l’assenza di una disciplina positiva che regoli il concordato di gruppo».
In definitiva:
• il concordato preventivo avrebbe dovuto riguardare individualmente le singole società del gruppo, e non invece la società di persone e le società di quella socie;
• pur in presenza di un concordato di diverse società legate da rapporti di controllo, anche se soggette a direzione unitaria, sarebbe stato necessario tenere distinte le masse attive e passive: per contro, il pregresso conferimento dei patrimoni nella neonata società aveva – nei fatti – operato una commistione dei medesimi, nonostante il formale rispetto del principio della loro distinzione;
• al contrario, poiché la società personale era stata costituita ad hoc con un patrimonio che – tramite i conferimenti – risultava dalla somma di quelli delle socie fondatrici, tutti i creditori delle quattro società erano confluiti nel medesimo numero di classi, con la conseguenza i creditori delle società meno capienti avevano inammissibilmente concorso con quelli delle società più capienti;
• il concordato preventivo della società non si estende – comunque – ai soci illimitatamente responsabili, i quali beneficiano solo dell’effetto esdebitatorio, ai sensi dell’art. 184, comma 2, l. fall., per i debiti sociali, e non invece per quelli personali di ciascuno di essi, che rimangono di titolarità delle conferenti;
• sul piano procedimentale, le maggioranze per l’approvazione del concordato avrebbero dovuto essere calcolate in riferimento alle singole imprese del gruppo, mentre nel caso di specie non era avvenuto, procedendosi – al contrario – senza adunanze separate e senza votazioni e maggioranze distinte per ciascuna società;
• non può – in ogni caso – essere ammesso un unico giudizio omologatorio.
2.2. Segue. L’insolvenza dei gruppi nel progetto di riforma delle procedure concorsuali
2.2.1. Il disegno di legge
Il disegno di legge di riforma delle procedure concorsuali prevede, anzitutto, la soppressione del termine “fallimento” che verrà sostituito dall’espressione “liquidazione giudiziale”, con l’evidente obiettivo di attenuarne il disvalore. Rimarrà, invece, inalterato il nomen del concordato preventivo.
Il disegno di legge di riforma prevede, poi, l’introduzione di una nozione di gruppo modellata su quella codicistica di direzione e coordinamento e la possibilità di gestire in modo unitario, seppure con masse separate, le procedure di concordato preventivo di gruppo e di liquidazione giudiziale, con una specifica disciplina.
In particolare, l’art. 3 contiene le seguenti enunciazioni:
1. La crisi e l’insolvenza dei gruppi di imprese vanno specificamente disciplinate introducendo:
a) una definizione di gruppo di imprese modellata sulla nozione di direzione e coordinamento di cui agli artt. 2497 ss., nonché 2545-septies, c.c., corredata dalla presunzione semplice di assoggettamento a direzione e coordinamento in presenza di un rapporto di controllo ai sensi dell’art. 2359 c.c.;
b) specifici obblighi dichiarativi, nonché il deposito del bilancio consolidato di gruppo, ove redatto, a carico delle imprese appartenenti ad un gruppo, a scopo di informazione sui legami di gruppo esistenti, in vista del loro assoggettamento a procedure concorsuali;
c) il potere dell’organo di gestione della procedura di richiedere alla Consob, o a qualsiasi altra pubblica autorità, informazioni utili ad accertare l’esistenza di collegamenti di gruppo, nonché di richiedere alle società fiduciarie le generalità degli effettivi titolari di diritti sulle azioni o sulle quote ad esse intestate;
d) la facoltà per le imprese, in crisi o insolventi, del gruppo sottoposte alla giurisdizione dello Stato italiano di proporre con unico ricorso domanda di omologazione di un accordo unitario di ristrutturazione dei debiti, o di ammissione al concordato preventivo, o di liquidazione giudiziale, ferma restando in ogni caso l’autonomia delle rispettive masse attive e passive, con predeterminazione del criterio attributivo della competenza, ai fini della gestione unitaria delle rispettive procedure concorsuali, ove le imprese abbiano la propria sede in circoscrizioni giudiziarie diverse;
e) obblighi reciproci di informazione e di collaborazione fra gli organi di gestione delle diverse procedure, nel caso in cui le imprese insolventi del gruppo siano soggette a separate procedure concorsuali, in Italia o all’estero;
f) il principio di postergazione del rimborso dei crediti di società o imprese appartenenti allo stesso gruppo, in presenza dei presupposti di cui all’art. 2467 c.c., salve deroghe dirette a favorire l’erogazione di finanziamenti in funzione o in esecuzione di una procedura di concordato preventivo e di accordo di ristrutturazione dei debiti.
2. Nell’ipotesi di gestione unitaria della procedura di concordato preventivo di gruppo devono essere previsti:
a) la nomina di un unico giudice delegato e di un unico commissario giudiziale ed il deposito di un unico fondo per le spese di giustizia;
b) la contemporanea e separata votazione dei creditori di ciascuna impresa;
c) gli effetti dell’eventuale annullamento o risoluzione della proposta unitaria omologata;
d) l’esclusione dal voto delle imprese del gruppo che siano titolari di crediti nei confronti delle altre imprese assoggettate alla procedura;
e) gli effetti dell’eventuale annullamento o risoluzione della proposta unitaria omologata;
f) i criteri per la formulazione del piano unitario di risoluzione della crisi del gruppo, eventualmente attraverso operazioni contrattuali e riorganizzative infragruppo funzionali alla continuità aziendale e al miglior soddisfacimento dei creditori, fatta salva la tutela in sede concorsuale per i soci ed i creditori delle singole imprese, nonché per ogni altro controinteressato.
3. Nell’ipotesi di gestione unitaria della procedura di liquidazione giudiziale di gruppo devono essere previsti:
a) la nomina di un unico giudice delegato e di un unico curatore, ma di distinti comitati dei creditori, per ciascuna impresa del gruppo;
b) un criterio di ripartizione proporzionale dei costi della procedura fra le singole imprese del gruppo;
c) l’attribuzione al curatore, anche nei confronti di imprese non insolventi del gruppo, del potere di:
1) azionare rimedi contro operazioni antecedenti l’accertamento dello stato di insolvenza e dirette a spostare risorse ad altra impresa del gruppo, in danno dei creditori;
2) esercitare le azioni di responsabilità di cui all’art. 2497 c.c.;
3) promuovere la denuncia di gravi irregolarità gestionali nei confronti degli organi di amministrazione delle società del gruppo non assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale;
4) nel caso in cui ravvisi l’insolvenza di imprese del gruppo non ancora assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale, segnalare tale circostanza agli organi di amministrazione e di controllo ovvero promuovere direttamente l’accertamento dello stato di insolvenza di dette imprese;
d) la disciplina di eventuali proposte di concordato liquidatorio giudiziale.
2.2.2. La relazione al disegno di legge
La relazione della Commissione Rordorf dedica all’insolvenza di gruppo un intero capitolo (Cap. 9 – “La crisi e l’insolvenza dei gruppi d’imprese”), di cui si riportano i passi salienti.
È un capitolo importante perché si tratta di colmare una lacuna dell’attuale legge fallimentare, che non solo dedica poca attenzione all’insolvenza delle imprese costituite in forma societaria, ma apparentemente ignora del tutto le peculiarità dell’insolvenza riguardante quei particolari conglomerati societari cui si è soliti riferirsi con l’espressione “gruppi” (d’imprese). Eppure è ben evidente che l’insolvenza e le eventuali possibilità di risolverla si presentano con connotati peculiari quando non una singola impresa (in veste individuale o societaria che sia) bensì un gruppo d’imprese nella sua interezza ne viene colpito.
Lo scenario europeo, ed in particolare il recentissimo Regolamento UE 2015/848, sull’insolvenza transfrontaliera, ulteriormente sollecitano il legislatore nazionale – che dell’insolvenza dei gruppi d’impresa si è occupato finora solo dettando alcune disposizioni in tema di amministrazione straordinaria – a colmare al più presto tale lacuna. Lacuna che, del resto, è da tempo acutamente avvertita nella pratica: soprattutto per quel che riguarda le procedure di concordato preventivo, nelle quali si sono spesso contrapposte l’esigenza di abbracciare unitariamente la realtà imprenditoriale del gruppo d’imprese soggette a procedura concorsuale ed il vigente impianto normativo che impone, invece, di considerare separatamente ogni procedura riguardante ciascuna singola impresa.
A questo scopo si è anzitutto scelto di evitare una nozione o definizione rigida di gruppo, e comunque una nozione nuova ed ulteriore rispetto a quella assunta dal codice civile all’esito della riforma organica del diritto societario intervenuta nel 2003, che dovrebbe ormai costituire il punto di riferimento comune ad ogni disciplina del fenomeno in parola.
Quanto, poi, all’evenienza della crisi e dell’insolvenza, pare chiaro che il connotato tendenzialmente unitario del fenomeno di gruppo possa assumere una valenza maggiore nelle procedure concordatarie, tese a garantire il più possibile la continuità aziendale, rispetto alle procedure meramente liquidatorie, in cui è naturalmente destinata a prevalere la visione statica dei diversi patrimoni sui quali i creditori di ciascun singolo imprenditore hanno rispettivamente titolo per soddisfarsi.
Ciò posto, sono state ipotizzate disposizioni volte a consentire lo svolgimento di una procedura unitaria per la trattazione dell’insolvenza delle plurime imprese del gruppo, individuando criteri di competenza territoriale idonei allo scopo e prevedendo, comunque, che anche in caso di procedure distinte che si svolgano in sedi giudiziarie diverse vi siano obblighi di reciproca informazione a carico degli organi di tali procedure.
È stata altresì prevista la possibilità di proporre un unico ricorso sia per l’omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti dell’intero gruppo, sia per l’ammissione di tutte le imprese del gruppo alla procedura di concordato preventivo e per la successiva eventuale omologazione, anche con presentazione di un piano concordatario unico o di piani tra loro collegati ed interferenti. Ciò non dovrà comportare, evidentemente, il venir meno dell’autonomia delle masse attive e passive di ciascuna impresa costituita in forma di società dotata di propria personalità giuridica (né, quindi, varrà ad escludere la necessità di votazioni separate da parte dei creditori di ciascuna società), ma consentirà di tenere pienamente conto dei riflessi reciproci delle singole operazioni contemplate dal piano e delle eventuali operazioni organizzative infragruppo.
2.3. L’insolvenza dei gruppi nell’amministrazione straordinaria. Lo status quo
L’istituto dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi è stato introdotto dal d.l. 30 gennaio, 1979, n. 26, convertito dalla legge 3 aprile 1979, n. 95 (c.d. legge Prodi), accanto alle procedure concorsuali tradizionali, per evitare il fallimento di imprese di rilevante interesse pubblico.
Scopo della procedura era quello di evitare le soluzioni liquidatorie che non tenessero conto dei rilevanti interessi, privati e pubblici, alla conservazione e al risanamento dell’impresa, contrariamente alle procedure concorsuali tradizionali la cui funzione essenziale era invece quella di tutelare l’interesse privato dei creditori a soddisfarsi sul patrimonio dell’imprenditore fallito.
Infatti, l’amministrazione straordinaria introdotta dalla legge Prodi prevedeva l’intervento di uno o più commissari, sotto la vigilanza dell’allora Ministero dell’industria (ora Ministro dello Sviluppo economico) escludendo il fallimento dell’impresa.
Nata come strumento temporaneo ed eccezionale, volto a consentire la verifica delle situazioni aziendali più rilevanti e l’individuazione sulla base di criteri socio-economici, delle attività risanabili e di quelle da liquidare, la legge nel corso degli anni è stata oggetto di varie censure da parte degli organi comunitari i quali, in diverse occasioni, ne hanno rilevato l’incompatibilità con le disposizioni comunitarie in materia di aiuti di Stato.
Le censure sono state superate con il d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (c.d. legge Prodi-bis), finalizzato a consentire una drastica riduzione della durata della procedura, ad orientare la procedura stessa alla celere individuazione di un nuovo assetto imprenditoriale ed a potenziare gli strumenti di tutela dei creditori.
Per quanto di interesse, occorre richiamare l’art. 80 della Prodi-bis, il quale individua la “procedura madre” nella prima procedura cui è sottoposta l’impresa che possiede, da sola, tutti i requisiti (di cui agli artt. 2 e 27 della Prodi-bis) per essere ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria.
In funzione della procedura madre, il gruppo viene individuato considerando:
• le imprese che controllano (direttamente o indirettamente) la società sottoposta alla procedura madre (i.e. le imprese direttamente e/o indirettamente controllanti);
• le società che sono direttamente o indirettamente controllate dall’impresa sottoposta alla procedura madre o dall’impresa che controlla quest’ultima (i.e. le imprese direttamente e/o indirettamente controllate);
• le imprese che, per la composizione degli organi amministrativi o sulla base di altri concordanti elementi (es. importanti rapporti contrattuali), risultano soggette ad una direzione comune a quella dell’impresa sottoposta alla procedura madre.
L’apertura della procedura di amministrazione straordinaria nei confronti di una società appartenente ad un gruppo legittima l’estensione di detta procedura anche alle altre imprese del gruppo che versano in stato di insolvenza e che, pur soggette al fallimento, non presentano gli specifici requisiti dimensionali di cui all’art. 2 della Prodi-bis. Tale estensione della procedura di amministrazione straordinaria alle altre società del gruppo è però subordinata alla ricorrenza di due alternativi presupposti in capo a dette società:
• quando vi siano concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali, tramite l’esecuzione di un programma di cessione dei beni aziendali o di ristrutturazione di cui all’art. 27 della Prodi-bis;
• quando risulti comunque opportuna la gestione unitaria dell’insolvenza nell’ambito del gruppo, in quanto idonea ad agevolare – per i collegamenti di natura economica o produttiva esistenti tra le singole imprese – il raggiungimento degli obiettivi della procedura.
Si tratta di una deroga piuttosto rilevante alla disciplina di diritto comune, sostanzialmente giustificata dall’esigenza di coordinare al meglio l’insolvenza delle varie società del gruppo in una procedura che si caratterizza per la continuazione dell’attività di impresa e la conservazione dei livelli occupazionali ed in cui, anche in considerazioni dei requisiti dimensionali, l’aspetto e le finalità latamente pubblicistiche sono sicuramente rilevanti.
Sulla disciplina generale dell’amministrazione straordinaria contenuta nella Prodi-bis si è innestata la procedura speciale di ammissione immediata (c.d. accesso diretto) all’amministrazione straordinaria introdotta dalla “Legge Marzano” (d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito con modificazioni in legge 18 febbraio 2004, n. 39).
2.4. Segue. Il progetto di riforma dell’amministrazione straordinaria
Il Governo Renzi ha presentato un progetto di legge delega al governo in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza (C3671-ter), che prevede il conferimento di una delega legislativa al Governo per il riordino dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza (d.lgs. n. 270/1999).
Il disegno di legge A.C. 3671-ter deriva dallo stralcio dell’originario disegno di legge A.C. 3671, concernente la “Delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza”, presentato alla Camera dei deputati l’11 marzo 2016.
Il Governo – nella relazione illustrativa al disegno di legge – evidenzia le sollecitazioni provenienti dall’Unione europea e in particolare dalla raccomandazione n. 2014/135/UE della Commissione, del 12 marzo 2014, oltre che dal Regolamento (UE) 2015/848, sulle procedure di insolvenza. Nella relazione sono poi richiamati i principi della model law, elaborati in tema di insolvenza dalla Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale internazionale (UNCITRAL), cui hanno aderito Stati anche extra europei (tra cui gli USA) e il cui recepimento, in regime di reciprocità, consente il riconoscimento dei provvedimenti giurisdizionali emessi nei rispettivi Paesi, con evidente vantaggio anche per gli imprenditori italiani operanti all’estero.
L’articolo unico del disegno di legge A.C. 3671-ter contiene i principi e i criteri direttivi di delega per la riforma dell’istituto dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, al fine di ricondurlo ad un quadro di regole generali comuni, come derivazione particolare della procedura generale concorsuale.
I numerosi criteri direttivi contenuti nel disegno di legge di delega (comma 1, lett. da a) a q)) riguardano, in primo luogo, una procedura unica di amministrazione straordinaria, con finalità conservative, destinata alla regolazione dell’insolvenza di singole imprese, ovvero di gruppi di imprese laddove queste si trovino nelle condizioni già indicate dalla legislazione vigente (art. 81 del d.lgs. n. 270/1999), che, sotto questo profilo, viene pertanto conservata (comma 1, lett. a)).
Cambiano i presupposti di accesso alla procedura, con riferimento ai profili dimensionali dell’impresa o dei gruppi di imprese:
• nelle imprese singole è stabilito in 400 il numero minimo di dipendenti e in complessivi 800 in caso di contestuale richiesta di ammissione alla procedura di più imprese del gruppo (comma 1, lett. b), n. 3)). Viene dunque adottata una soluzione intermedia tra i presupposti di accesso delineati nel d.lgs. n. 270/1999 (numero di lavoratori non inferiore a 200 per le singole imprese) e i presupposti di accesso fissati nel d.l. 347/2003 (numero di lavoratori non inferiore a 500 per le singole imprese);
• il requisito dimensionale – dunque il concetto di “grande impresa” – non è più ancorato ai soli occupati, ma anche alla media del volume di affari degli ultimi tre esercizi (comma 1, lett. b), n. 2)).
Si prevede poi l’estensione alla procedura di amministrazione straordinaria riguardante i gruppi di imprese dei principi e i criteri direttivi fissati dall’articolo 3 (comma 1, lett. p)).
Per quanto di interesse, l’art. 3 del disegno di legge A.C. 3671-bis detta principi e criteri direttivi per la disciplina della crisi del gruppo societario, prefigurando disposizioni volte a consentire lo svolgimento di una procedura unitaria per la trattazione dell’insolvenza delle società del gruppo e prevedendo, comunque, che anche in caso di procedure distinte che si svolgano in sedi giudiziarie diverse, vi siano obblighi di reciproca informazione a carico degli organi procedenti.
In particolare, il Governo è delegato a definire il concetto di “gruppo di imprese”, ai fini dell’applicazione delle procedure concorsuali, e dovrà inoltre:
• prevedere, a carico delle imprese appartenenti al gruppo, specifici obblighi dichiarativi nonché, se redatto, il deposito del bilancio consolidato di gruppo: dovranno dunque essere palesati i legami di gruppo esistenti in vista del loro assoggettamento a procedure concorsuali;
• consentire all’autorità giudiziaria competente per la procedura concorsuale di rivolgersi alla Consob o a qualsiasi altra autorità pubblica in possesso di informazioni al fine di verificare l’esistenza di legami di gruppo;
• prevedere, se sono più di una le imprese del gruppo che si trovano in crisi, la possibilità di presentare una sola domanda con la quale chiedere l’ammissione al concordato preventivo. La delega precisa inoltre che il ricorso unitario non comporta il venire meno dell’autonomia delle masse attive e passive di ciascuna impresa;
• prevedere, quando le procedure di concordato relative a imprese del medesimo gruppo sono distinte, che gli organi di gestione delle procedure debbano collaborare e scambiare informazioni;
• disciplinare le sorti dei finanziamenti all’impresa in crisi provenienti da altre società o imprese del gruppo.
3. Conclusioni
Come si è già avuto modo di porre in evidenza, la rilevanza giuridica del gruppo assume un perimetro di applicazione che assume portata non esclusivamente endogena, ma sfocia nella considerazione dell’interesse di tutti gli stakeholder.
In tale contesto, e nella prospettiva della valutazione degli interessi degli stakeholder maggiormente esposti in una situazione di default, non si può prescindere dalla considerazione dell’interesse dei creditori – soprattutto nel concordato in continuità – alla sopravvivenza dell’intero gruppo ove, dalla “capitolazione” anche soltanto di una delle sue componenti, discenda il tracollo di tutte.
Si è ampiamente detto della posizione netta della giurisprudenza in ordine all’inammissibilità del fallimento di gruppo, mentre sono state richiamate alcune sentenze di merito in cui è stata attribuita rilevanza al concordato di gruppo, con il noto epilogo dissacratorio della Suprema Corte.
In attesa della riforma, ci si deve quindi interrogare se – attraverso la previsione di appositi correttivi – possano essere superati i limiti di fattibilità giuridica individuati dalla Suprema Corte, nella sentenza più volte richiamata.
Il limite principale posto in evidenza dalla Suprema Corte è costituito dall’autonomia delle masse passive: ciò sancirebbe in radice l’illegittimità del concordato di gruppo. Vale quindi la pena di verificare se e come tale limite possa essere superato.
Muovendo da tale constatazione, occorre prendere in esame quali possano essere gli strumenti utilizzabili per accentrare e coordinare l’espressione del voto, pur nella salvaguardia del “peso specifico” delle singole masse passive: ciò è possibile attraverso la creazione di “classi virtuali”, corrispondenti alle masse distinte di ciascuna delle società appartenenti al gruppo insolvente.
Come è noto, l’art. 160 l. fall. consente di suddividere i creditori in classi secondo la loro posizione giuridica e l’omogeneità dei loro interessi economici, e di assegnare trattamenti differenziati ai creditori appartenenti a classi diverse.
Al riguardo occorre sottolineare che l’organizzazione dei creditori in classi è facoltativa, potendo il ricorrente decidere di non formare alcuna classe, o meglio di accomunare tutti i creditori in un’unica classe indistinta. Laddove però vengano formate le classi, occorre rispettare l’ordine delle cause legittime di prelazione e un criterio di ragionevolezza (omogeneità delle posizioni giuridiche e degli interessi economici).
La ratio della suddivisione in classi risiede, secondo alcuni, nell’esigenza di favorire la ristrutturazione del debito del proponente, consentendogli di superare i contrasti con i singoli creditori; altri affermano cherisieda invero nell’esigenza di offrire maggiore tutela ai creditori, per far sì che la maggioranza per l’approvazione del concordato si formi all’interno di gruppi portatori di interessi assimilabili, non inquinata da interessi particolari e contingenti.
Tuttavia, mentre nel concordato fallimentare devono essere precisate le ragioni dei trattamenti differenziati tra i creditori, nel concordato preventivo manca un’analoga previsione. Pertanto, nel silenzio del legislatore su come debba essere effettuata in concreto la distribuzione dei creditori all’interno delle classi, deve ritenersi che il debitore sia libero di effettuare la distribuzione dei debitori in classi secondo scelte affidate alla sua discrezionalità, con il solo limite dell’applicazione di criteri ragionevoli. A meno che, infatti, il debitore assuma decisioni bizzarre, sganciate da qualsiasi riferimento a un criterio economico, ogni altro parametro deve ritenersi legittimo.
La giurisprudenza ha affermato che l’obbligo della suddivisione in classi non può derivare dalle diverse situazioni individuali, poiché tali situazioni sono potenzialmente tante quanti sono i creditori ed il loro censimento, prima ancora che arbitrario, sarebbe impossibile e porterebbe a una proliferazione assurda delle classi (Cass. 10 febbraio 2011, n. 3274). Inoltre, la stessa valutazione del giudice rischierebbe di sconfinare pericolosamente nella discrezionalità. La suddivisione in classi non richiede, pertanto, l’identità di posizioni giuridiche e di interessi economici, ma solo la loro omogeneità (Trib. Perugia 16 luglio 2012).
Una parte della giurisprudenza ritiene che il sindacato del tribunale non possa spingersi fino al punto di effettuare valutazioni di merito sull’opportunità della collocazione di un creditore in una classe piuttosto che in un’altra, ma deve limitarsi a valutare la correttezza dei criteri utilizzati alla luce del dettato normativo, che indica, come unico parametro, l’omogeneità di posizione giuridica e di interessi economici.
In tale contesto, si potrebbe – come anticipato – ipotizzare la creazione di classi virtuali corrispondenti alle singole masse, con la precisazione che il concordato preventivo – per essere approvato – deve ottenere la maggioranza dei voti favorevoli in tutte le classi; in tal modo, si garantirebbe l’autonomia formale e sostanziale delle masse passive, pur nell’ambito di un’unica adunanza.
Sotto tale profilo, dalla necessità di celebrare un’unica adunanza dei creditori, preceduta dalla redazione di un’unica relazione exart. 172 l. fall., nella quale i profili di trattazione unitaria della crisi del gruppo possano essere illustrati a tutti i creditori del gruppo, discende l’opportunità di una votazione che tenga conto degli stati passivi delle singole società in concordato e delle masse dei creditori – che costituirebbero le “classi virtuali” di cui si è detto – ai fini del calcolo della maggioranza necessaria per l’approvazione.
Con riferimento alla competenza di cui all’art. 161, comma 1, l. fall. – altro limite all’unitarietà della procedura concordataria –, se è vero che la disciplina è commisurata alla domanda della singola impresa di essere ammessa alla procedura di concordato preventivo, così determinando la competenza del tribunale in cui detta impresa ha la propria sede principale, non può essere escluso che – in presenza appunto di un raggruppamento di imprese “a direzione unitaria” e cioè di “una impresa di gruppo” – se ne debba tenere conto, così che la competenza stabilita dall’art. 161, comma 1, l. fall., abbia a radicarsi presso il Tribunale ove la capo-gruppo ha la sua sede principale.
Pare invece fuori di discussione che – ove la riconduzione ad unità del concordato venga “forzata” attraverso il preliminare conferimento in una società di persone – l’intera operazione rimane soggetta ad un evidente elemento di incertezza durante la fase esecutiva, costituito dal possibile esercizio dell’azione revocatoria da parte dei creditori di ciascuna delle società del gruppo, in relazione al conferimento dell’azienda nella s.n.c. veicolo. Tanto più che l’azione revocatoria può essere esercitata entro cinque anni, ancorché possano essere salvi gli effetti degli atti trascritti anteriormente alla domanda revocatoria e relativi ad attività liquidatorie poste in essere in esecuzione del concordato preventivo.
Si potrebbe, tuttavia, esplorare un percorso alternativo: la fusione fra società – alcune delle quali o tutte – in crisi.
Occorre subito precisare che, nell’ipotesi del concordato di gruppo, l’unico caso concretamente verificabile è quella della fusione che si perfeziona nel corso (o dopo) la procedura concordataria, dal momento che nell’ipotesi contraria – cioè quella di fusione perfezionata prima della domanda di ammissione al concordato preventivo – si avrebbe già un unico soggetto, con la conseguenza che non si potrebbe neppure ipotizzare un concordato preventivo di gruppo. In tale caso, infatti, i creditori della società eventualmente incorporata nella società in concordato, per i quali siano decorsi i termini ex art. 2503 c.c. senza che sia stata fatta opposizione, diventano concorsualizzati tout court, con la conseguenza che gli stessi hanno diritto di voto (se non privilegiati o in prededuzione) e possono proporre opposizione in sede di omologazione del concordato (R. BROGI).
Come è noto, la riforma del diritto societario – attuata con il d.lgs. n. 5/2003 – ha abolito il divieto di partecipazione alla fusione per le società sottoposte ad una procedura concorsuale, con la conseguenza che la fusione, oltre alla sua funzione tradizionale di strumento di concentrazione giuridica e di riorganizzazione aziendale, può ora svolgere anche un ruolo importante nel momento della ristrutturazione del debito. E in tale contesto l’art. 160, comma 1, lett. a), l. fall., prevede che la soluzione della crisi possa realizzarsi anche mediante altre operazioni straordinarie, compresa l’attribuzione di azioni ai creditori ed a società da questi partecipate; d’altronde, la previsione di un’operazione straordinaria nell’ambito di un piano concordatario può trovare una significativa applicazione proprio con riferimento alle crisi di gruppo, dove emerge – spesso – l’esigenza di proporre un piano concordatario unitario in cui la soluzione della crisi avvenga anche mediante un riassetto societario complessivo.
Con riferimento al coordinamento tra diritto societario e diritto concorsuale è bene precisare, tuttavia, come l’art. 160 l. fall. contenga niente più che un generico riferimento alle operazioni straordinarie, senza dettare alcuna disciplina particolare rispetto a quella civilistica, che deve pertanto trovare pienamente applicazione, soprattutto laddove vengano in gioco principi fondamentali come quelli espressi dall’art. 2740 c.c.. E, in mancanza di una normativa ad hoc, spetta quindi all’interprete l’individuazione della disciplina concretamente applicabile alle ipotesi di operazioni straordinarie compiute in ambito concorsuale, attraverso il complesso raccordo tra la disciplina concorsuale e quella societaria (R. BROGI). In particolare:
• i rapporti tra la disciplina societaria della fusione ed il concordato trattamento dei creditori della società partecipanti alla fusione;
• i rapporti tra la disciplina relativa all’opposizione all’omologazione e quella relativa all’opposizione alla fusione ex art. 2503 c.c.;
• la stessa fattibilità giuridica del concordato preventivo;
• la corretta informazione dei creditori.
In tale contesto, una delle questioni oggetto di più acceso dibattito è costituita dai rapporti tra l’opposizione alla fusione ex art. 2503 c.c. e l’opposizione all’omologazione del concordato di cui all’art. 180 l. fall., giacché lo scarno riferimento compiuto alle operazioni straordinarie da parte dell’art. 160 l. fall. non consente alcun assorbimento della disciplina della fusione nell’ambito di quella relativa al concordato preventivo; con la conseguenza che, in assenza di un’espressa previsione derogatoria dell’art. 2503 c.c., si deve ritenere che il creditore della società partecipante alla fusione mantenga intatto il diritto di proporre opposizione (davanti al c.d. tribunale delle imprese), senza che quest’ultima possa essere inclusa nella possibilità di opporsi all’omologazione del concordato preventivo (R. BROGI).
Quindi, il piano concordatario di gruppo deve essere costruito nel rispetto dei principi di cui all’art. 2740 c.c., e cioè con votazioni distinte per ciascuna società, masse distinte e previsione delle risorse necessarie a far fronte ad eventuali opposizioni ex art. 2503 c.c.
Quanto alla tempistica del perfezionamento della fusione e al trattamento dei creditori, vi sono alcune significative differenze tra fusioni infragruppo a seconda che siano o meno attuate nell’ambito di concordati preventivi di gruppo – dove tutte le società partecipanti alla fusione sono in concordato preventivo – o meno.
Dal punto di vista operativo, il piano concordatario – solitamente – prevede che gli effetti dell’atto di fusione siano condizionati sospensivamente all’omologazione del concordato; ciò poiché – nella prospettiva delle società che propongono il concordato di gruppo – la riorganizzazione societaria attuata mediante la fusione e la ristrutturazione del debito attuata mediante il concordato preventivo costituiscono elementi inscindibili di un quadro necessariamente unitario.
Una volta intervenuta l’omologazione, la società incorporante o risultante dalla fusione ai sensi dell’art. 2504-bis c.c. assume tutti i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, fra i quali l’adempimento del concordato preventivo.
L’ampiezza del richiamo compiuto dall’art. 160 l. fall. al possibile ricorso alle operazioni straordinarie, quale possibile oggetto di previsione nell’ambito di un piano concordatario, consente che le stesse possano essere attuate sia nell’ambito di un concordato liquidatorio che di un concordato in continuità. Invero, sono evidenti i vantaggi ricavabili, anche nella prospettiva della continuazione dell’attività di impresa, dal momento che si procede alla ristrutturazione del debito contestualmente alla riorganizzazione societaria (anche mediante un’eventuale ridimensionamento delle strutture organizzative grazie alla concentrazione giuridica attuata mediante la fusione), con la prosecuzione dell’attività economica. Ma, nella pratica il ricorso al concordato di gruppo, con un piano caratterizzato da una fusione, può tuttavia assolvere anche all’esigenza di concentrare le attività di liquidazione in un unico soggetto, destinato ad operare in via esclusiva nella fase esecutiva del concordato preventivo: il ricorso alle operazioni straordinarie nell’ambito del concordato di gruppo può essere – pertanto – funzionale anche ad una prospettiva di tipo liquidatorio, anche se è più facile l’ipotesi in cui la concentrazione attuata mediante la fusione sia funzionale ad una parziale continuità da attuare nella fase esecutiva del concordato, ancorché prodromica alla liquidazione dei beni (R. BROGI).
Riferimenti di dottrina
BROGI R., Il concordato preventivo di gruppo e la fusione, in www.osservatorio-oci.org/.
DI MAJO A., I gruppi di imprese nel concordato preventivo e nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, in www.orizzontideldirittocommerciale.it/.
GALGANO F., I gruppi di società, Utet, Torino, 2001.
GUERRERA F., La responsabilità “deliberativa” nelle società di capitali, Giappichelli, Torino, 2004.
MONTALENTI P., La riforma del diritto societario, in Giur. comm., 2006.
PALLADINO V., Il concordato di gruppo: presupposti di ammissibilità, questioni di competenza territoriale e rapporti con il procedimento prefallimentare, in www.il
fallimentarista.it.
TOMBARI U., Il gruppo di società, Giappichelli, Torino, 1997.
VITIELLO M., Il concordato preventivo “di gruppo”, in www.ilfallimentarista.it.
Riferimenti di giurisprudenza
App. Roma 1° luglio 1985, in Foro it., 1986, I.
Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439, in Giur. comm., 1991, II.
Cass. 8 maggio 1991, n. 5123, in Foro it., 1992, I.
Cass. Lav. 3 agosto 1991, n. 8532, in Giur. it., 1992, I.
Trib. Firenze 13 luglio 1992, in Dir. fall., 1994, 563.
Trib. Ivrea 21 febbraio 1995, in Fall., 1995, 969.
Trib. Perugia 3 marzo 1995, in Foro it., 1995, 1952.
Trib. Terni 19 maggio 1997, in Fall., 1998, 290.
Trib. Roma 16 dicembre 1997, in Dir. fall., 1998, 778.
Cass. 21 gennaio 1999, n. 521, in Corr. giur., 1999.
Trib. Crotone 28 maggio 1999, in Gius. civ., 2000, 1533.
Trib. Milano, 20 dicembre 2004, in Guida dir., 2004.
Trib. Roma 7 giugno 2007, Decr., in Il Fallimento, 2008, 218 con nota di Di Majo.
Cass. 18 novembre 2010, n. 23344, in www.ilcaso.it.
Cass. 10 febbraio 2011, n. 3274, in www.ilcaso.it.
Trib. Perugia 16 luglio 2012, in www.ilcaso.it.
Trib. Roma 18 aprile 2013, decr., in www.ilcaso.it.
Trib. Rovigo 5 novembre 2013, in www.dirittobancario.it, con nota di Fischetti.
Trib. Palermo 4 giugno 2014, in www.ilcaso.it.
Cass. 13 ottobre 2015, n. 20559, in www.ilcaso.it.