Diritto ed Economia dell'ImpresaISSN 2499-3158
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


L'istituto della diseredazione, fra tradizione e attualità. Parte II (di M. Cavanna)


SOMMARIO:

1. Generalità: nuove applicazioni di istituti privatistici indotte dalla crisi economica - 2. La successione dell’imprenditore: meglio la posizione di erede o di creditore? - 3. La diseredazione: una possibile rilettura - 4. Una ipotesi di conclusione - NOTE


1. Generalità: nuove applicazioni di istituti privatistici indotte dalla crisi economica

La crisi economica di questi ultimi tempi ha inciso talvolta drammaticamente sulle vicende individuali di tante famiglie, specialmente quelle il cui reddito deriva principalmente dall’attività di un imprenditore. Non è un caso che ultimamente non solo il legislatore abbia dedicato grande attenzione alla disciplina delle procedure concorsuali: basti pensare alla generale riforma del diritto fallimentare entrata in vigore, per tappe successive, tra il 2005 e il 2007 e con ulteriori successivi aggiustamenti [1]; ovvero all’istituzione di una nuova procedura dedicata alla composizione delle crisi per sovraindebitamento, destinata ai soggetti tradizionalmente esclusi dalle procedure concorsuali [2]. E, davvero significativamente, è alle viste una globale risistemazione della materia che verrà a culminare nell’introduzione del nuovo codice del diritto concorsuale [3]. In realtà le situazioni di difficoltà, che segnano così profondamente il tessuto del nostro sistema economico, hanno risonanza persino più ampia nelle scelte dei singoli. Si è infatti assistito a fenomeni del tutto nuovi rispetto al passato, ad esempio nell’ambito della risistemazione dei patrimoni familiari. Em­blematico appare il caso del contratto di donazione, che nella sua stessa causa esprime lo scopo ultimo della liberalità, vale a dire arricchire il soggetto destinatario della attribuzione patrimoniale [4]. Ora pare assai difficile intravedere anche solo una lontana eco di tale profilo causale, laddove un padre di famiglia, trovandosi in crisi di liquidità nel far fronte, con i proventi della propria pensione, alle imposte cui va soggetta la c.d. “seconda casa” acquistata in passato con i proprio risparmi, decida quasi suo malgrado di donarla al figlio, in modo che per que­st’ultimo possa essere una “prima casa” la quale ha un impatto fiscale meno pesante. Questo padre è infatti costretto a scartare subito l’ipotesi di vendere quella casa a terzi, che si tradurrebbe quasi inevitabilmente in una svendita stante il generale ribasso dei prezzi degli immobili. Pare evidente che, in situazioni del genere, il profilo legato al voler beneficiare il donatario passa decisamente in subordine rispetto alla primaria esigenza di ridurre le spese che altrimenti la famiglia dovrebbe sopportare – soprattutto se, magari, lo [continua ..]


2. La successione dell’imprenditore: meglio la posizione di erede o di creditore?

Il diritto delle successioni non fa eccezione alla descritta tendenza: non è raro che una persona pensi di fare testamento, allo scopo non già di dare un assetto al proprio patrimonio tale da escludere liti e controversie tra i suoi successori, quanto piuttosto di consentire un legittimo risparmio di spesa, sul piano civilistico e anche tributario. Ancor più chiaramente, in talune – purtroppo non così infrequenti – vicende ereditarie la visuale tradizionale, che considera privilegiata la figura dell’e­rede, viene quasi capovolta. Il punto è che l’erede continua la posizione del defunto non solo nel lato attivo del patrimonio, ma anche in quello passivo: e il caso che purtroppo sta divenendo sempre più frequente è quello del defunto che lascia un patrimonio pure non esiguo, ma con carenza totale di liquidità, oltre a una serie importante di debiti non solo verso privati, ma anche verso il fisco proprio perché non riusciva più a soddisfare la sempre più pressante imposizione sul suo patrimonio. Gli eredi si trovano allora nella scomoda situazione di chi deve sciogliere la dolorosa alternativa se: a) accettare l’eredità, facendosi carico del passivo, con l’onere quindi di alienare (in concreto: svendere) taluni beni ereditari, tipicamente immobili, a rischio poi di scoprire che, anche per la sopravvenienza di ulteriori debiti inizialmente ignoti, il passivo ereditario abbia eroso gran parte dell’attivo [6]; b) ovvero, ben più drasticamente, rinunziare al patrimonio ereditario e ai debiti relativi, e, in tal modo, anche rinunziare a continuare la figura del defunto sul piano sociale. Scelta quest’ultima che può anche essere non agevole da attuare, ad esempio se la persona che intende effettuare la rinunzia, discendente in linea retta del defunto, sia a sua volta genitore di un soggetto minore di età (o meno frequentemente soggetto a tutela, curatela o amministrazione di sostegno): il minore (o l’incapace) risulterebbe infatti chiamato iure rapresentationis, e ciò comporterebbe quanto meno la necessità di introdurre un (non immediato né privo di costi) procedimento di volontaria giurisdizione, attraverso il quale il legale rappresentante del minore (incapace) dovrebbe ottenere l’autorizza­zio­ne giudiziale alla suddetta [continua ..]


3. La diseredazione: una possibile rilettura

Proprio in questa particolare prospettiva a mio avviso può essere riletto anche l’istituto della diseredazione. Il tradizionale divieto di cittadinanza di tale figura nel nostro sistema successorio poggia sul presupposto, ben messo in evidenza nella trattazione svolta nella Prima Sezione di questo lavoro, che una disposizione testamentaria deve avere contenuto positivo e non puramente negativo. La diseredazione configura una clausola di dubbia validità non tanto perché possa tradursi in sé in una violazione della successione legittima o necessaria, ma piuttosto perché sul piano concettuale l’interessato, nel redigere (o nel fare redigere dal notaio) il proprio testamento, potrebbe unicamente: o istituire un erede o attribuire beni particolari a un legatario, mentre non gli sarebbe consentito limitarsi ad escludere un dato soggetto dalla vicenda devolutiva. L’at­tribuzione testamentaria può avere contenuto positivo, non meramente negativo [9]. Ci si può interrogare se, a fronte di un patrimonio ereditario negativo e “imprenditoriale”, possano valere le considerazioni teoriche “classiche” sopra menzionate in tema di diseredazione. Invero pare di poter osservare in prima battuta che, ove nel patrimonio ereditario fossero unicamente compresi consistenti debiti di varia natura, o comunque questi preponderassero significativamente sugli elementi dell’attivo, una disposizione negativa avrebbe quanto meno il pregio di allontanare l’“amaro calice” della rinunzia ereditaria, anche nei confronti di soggetti incapaci. Questa ipotesi di lettura presenterebbe il vantaggio di non dover affrontare il problema degli oneri legati alla rinunzia. Che, alla luce di un importante quanto discutibile (e a dire il vero poco seguito nella prassi) orientamento della Suprema Corte di Cassazione, per il chiamato che sia anche al possesso dei beni ereditari non si traducono unicamente nella mera predisposizione dell’atto di rinunzia, ma anche nella necessaria redazione dell’inventario. Ciò sulla base di una esegesi rigorosa e testuale dell’art. 485 c.c., che richiederebbe comunque al suddetto chiamato di predisporre l’inventario, evidentemente perché la sua posizione di possessore sarebbe per sé più pericolosa per i terzi: il chiamato possessore, in sostanza, [continua ..]


4. Una ipotesi di conclusione

Al di là di queste ultime argomentazioni, che poi si richiamano ai termini tradizionali di inquadramento del tema, preme sottolineare come, a ben vedere, la disposizione di diseredazione in presenza di un patrimonio negativo evita in radice al chiamato di dover gestire un gravoso indebitamento, senza ricorrere alla rinunzia o, in alternativa, senza la necessità di attivare il meccanismo dell’accettazione beneficiata. In proposito si potrebbe osservare ad esempio che la rinunzia ereditaria non è destinata a rimanere sempre indefettibile, in quanto i creditori “particolari” dell’erede sono legittimati ad introdurre un meccanismo in senso lato revocatorio dell’impugnazione ex art. 524 c.c., secondo la ratio che, per effetto della rinunzia, è l’erede a sottrarsi all’eredità lasciatagli dal de cuius, in danno dei propri aventi causa. Nel nostro caso invece l’iniziativa parte dallo stesso testatore, onde sua è la principale volontà che si traduce poi nell’esclusione del chiamato dal patrimonio ereditario; la volontà dello stesso chiamato resta qui sullo sfondo, come mera acquiescenza al testamento diseredativo. Non che difettino anche in tale evenienza gli strumenti di difesa dei creditori: che infatti potrebbero far valere le ragioni del “diseredato felice”, ad esempio avvalendosi in via surrogatoria delle prerogative allo stesso ordinariamente riconosciute. Ma altro è, sembra, dimostrare il danno, oggettivamente causato dalla rinunzia dell’erede, che sta a fondamento dell’art. 524 c.c.; altro è attivare il complesso meccanismo dell’azione surrogatoria e assumerne i relativi oneri probatori. Al limite si potrebbe riproporre in questo nuovo contesto la lettura estensiva dell’art. 524 c.c., che come noto parte della dottrina estende a specie diverse dalla vera e propria rinunzia, come, in ipotesi, la decadenza conseguente all’altrui esperimento dell’actio interrogatoria ai sensi dell’art. 481 c.c. [18], sul presupposto che lo stesso art. 524 c.c. sia espressione di regola generale, suscettibile di estensione analogica. Ma, ancora, altro è provare il danno che deriva dall’iniziativa dell’erede; altro è provare che un analogo pregiudizio deriva dalla scelta operata dal testatore di introdurre la clausola di [continua ..]


NOTE