Diritto ed Economia dell'ImpresaISSN 2499-3158
G. Giappichelli Editore

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Il rating fiscale (di Alberto Franco, Professore a Contratto di Diritto Tributario presso l’Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Management. Dottore di Ricerca in Diritto Tributario delle Società. Dottore Commercialista e Revisore Legale, Fieldfisher Italia, Torino)


L’intervento fornisce una introduzione al quadro di riferimento in materia di rating fiscale. La trattazione prende avvio dalla definizione della fattispecie, nonché dall’analisi del rischio fiscale. Nell’analisi proposta, l’autore si sofferma sulla misurazione del rischio fiscale nelle diverse tipologie di contribuenti, avuto particolare riguardo sia alle grandi imprese, sia alle realtà medio-piccole. Infine, l’intervento fornisce interessanti riflessioni sull’intro­duzione degli ISA e sulle relative conseguenze sul tema oggetto di indagine.

The tax rating

The short paper provides an introduction to the framework of tax rating. The dissertation starts from the definition of the topic, as well as from the analysis of the tax risk. Against this background, the author focuses on the measurement of tax risk in the different types of taxpayers, with particular regard to both large companies and medium-small businesses. At the end, the short paper provides interesting reflections on the introduction of ISAs and the related consequences on the subject under investigation.

SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. La misurazione del rischio fiscale nelle diverse tipologie di contribuenti. Le imprese di grandi dimensioni - 2.2. La valutazione del rischio fiscale per le imprese di grandi dimensioni - 2.3. Segue. L’adempimento collaborativo e l’analisi del rischio fiscale dell’impresa - 3. La misurazione del rischio fiscale per le piccole e medie imprese e per il lavoro autonomo: la necessità di un rating fiscale - 3.1. La disciplina antecedente agli ISA - 3.2. L’introduzione degli ISA - 4. Osservazioni conclusive - NOTE


1. Introduzione

La nozione di rating è, com’è noto, essenzialmente una nozione di carattere economico-finanziario, che, a partire da tale ambito, è stata poi trasposta anche in altri settori dell’economia, nonché in taluni settori del diritto. È quindi evidente che il rating non è un concetto proprio dell’ordinamento tributario, per cui, preliminarmente, occorre definire cosa si intende per “rating fiscale”. Se intendiamo il rating secondo la prospettiva del rating finanziario (o di credito), ovverosia, in estrema sintesi, l’attitudine a rappresentare in modo sintetico il merito creditizio o la capacità di rimborso dell’emittente in relazione a singole posizioni debitorie, è chiaro che dal punto di vista fiscale, come dal punto di vista, ad esempio, delle analisi di tipo ESG, il rating finanziario può essere solo marginalmente di supporto. Infatti, l’attribuzione del rating finanziario riflette un giudizio di sintesi qualitativo e quantitativo basato su di un ampio spettro di variabili, ritenute nel loro insieme idonee a segnalare eventuali difficoltà dell’emittente nella fase di rimborso [1]. Indubbiamente la variabile fiscale è una delle componenti in grado di incidere sulla solvibilità dell’emittente, in quanto un elevato rischio fiscale può senz’altro comportare importanti criticità dal punto di vista sia legale, sia finanziario. Tuttavia, al riguardo si ritiene che, se l’analisi del rischio fiscale può essere certamente ricompresa nel rating finanziario quale uno degli elementi quali/quantitativi che vanno a configurare il giudizio sintetico del valutatore, il concetto di rating fiscale non si esaurisca in questo elemento e necessiti invece di misure ad hoc e, più in generale, di un ambito di applicazione più ampio. Infatti, occorre considerare che il primo stakeholder interessato a valutare direttamente il “rischio fiscale” di un’impresa – direttamente e non in via “mediata” – è l’Amministrazione finanziaria, e non il mercato, né gli investitori, né i creditori, i quali di fatto analizzano la variabile fiscale solo in relazione alle sue conseguenze, e quindi in termini di rischio legale/reputa­zio­nale/finanziario. Ciò, come si vedrà meglio nel prosieguo, ha importanti riflessi [continua ..]


2. La misurazione del rischio fiscale nelle diverse tipologie di contribuenti. Le imprese di grandi dimensioni

2.1. I diversi “fattori di rischio fiscale” e le tipologie di contribuenti In via di principio, una disamina in relazione al rating fiscale non può che partire individuando i diversi “fattori di rischio” dal punto di vista dell’impo­sizione, e al riguardo è necessario premettere che il rischio di evasione fiscale non si configura in maniera uniforme per tutti i contribuenti – fattore che rende particolarmente problematico elaborare un indicatore sintetico di rischio uniforme per tutte le categorie di contribuenti, come si vedrà meglio nel prosieguo. Preliminarmente, occorre osservare che l’Amministrazione finanziaria non ha necessità di valutare in maniera sintetica il rischio fiscale di tutti i contribuenti, ma in via di principio solo di quelli che generalmente non conseguono i redditi (o parte degli stessi) per mezzo di sostituti d’imposta, ovverosia innanzitutto i contribuenti titolari di reddito d’impresa o di lavoro autonomo. È infatti evidente che i soggetti che conseguono i redditi per mezzo di sostituti d’imposta hanno di regola un minor rischio fiscale in relazione alla possibilità di occultamento di tali redditi all’Amministrazione finanziaria. Si pensi ad esempio al percettore di redditi di lavoro dipendente: nel rapporto con il datore di lavoro si inserisce il meccanismo della sostituzione d’imposta, che comporta l’effettuazione da parte del datore di lavoro/sostituto d’imposta di una ritenuta alla fonte sul reddito che viene determinata in maniera progressiva e che “segnala” all’Amministrazione finanziaria ed agli enti previdenziali la retribuzione del lavoratore [2]. Appare quindi chiaro che in tale contesto l’Agenzia delle Entrate è già in possesso di numerosi dati e non ha la necessità (rectius, ha una necessità minore) di misurare il rischio fiscale di tali tipologie di contribuenti, specie attraverso un indice sintetico. Se, quindi, la misurazione del rischio fiscale per l’Amministrazione finanziaria è particolarmente importante per imprese e lavoratori autonomi, occorre riconoscere che i profili di rischio si diversificano radicalmente a seconda che si considerino le imprese di grandi dimensioni da un lato, e quelle piccole e medie (nonché i lavoratori autonomi) dall’altro lato, in quanto per tali due macro-categorie di [continua ..]


2.2. La valutazione del rischio fiscale per le imprese di grandi dimensioni

Nelle imprese di più grandi dimensioni è più efficace valutare il rischio non in maniera sintetica, bensì analitica, stante la platea relativamente ridotta di tali soggetti. Ciò anche in considerazione del fatto che le grandi imprese e i gruppi multinazionali utilizzano la contabilità e i sistemi di controllo interno non come mero adempimento, ma anche (e soprattutto) come strumento gestionale. Questa circostanza, in una organizzazione solitamente “spersonalizzata” come una grande impresa, mal si presta a politiche di occultamento dei ricavi che invece rappresentano uno dei principali “fattori di rischio” nell’ambito delle piccole imprese e del lavoro autonomo. Infatti, solitamente le operazioni anti-evasione che coinvolgono gruppi multinazionali e soggetti di rilevanti dimensioni hanno riguardato non l’accer­tamento di ricavi non dichiarati, bensì la contestazione da parte dell’Ammi­nistrazione finanziaria circa il regime giuridico di vicende dichiarate (o comunque non dichiarate in base a motivazioni di natura tecnico-giuridica, ma comunque non occultate da parte del contribuente) [3]. Alla luce di ciò, pertanto, per l’Agenzia delle Entrate è sicuramente più efficiente fronteggiare il rischio fiscale sia attraverso l’ordinaria attività di accertamento, sia anche per mezzo di procedure quali l’adempimento collaborativo (cooperative compliance).


2.3. Segue. L’adempimento collaborativo e l’analisi del rischio fiscale dell’impresa

Particolarmente interessante nella prospettiva della presente disamina è il regime dell’adempimento collaborativo, in ragione del fatto che detto regime pone quale condizione per l’accesso proprio l’analisi del rischio fiscale da parte dell’impresa [4]. In altri termini, quindi, per l’Amministrazione finanziaria è sicuramente più agevole monitorare costantemente, e su base individuale, il rischio fiscale, demandando all’impresa l’implementazione di un sistema a presidio di tale rischio, e ricollegando tale attività anche all’accesso ad un regime con elementi di premialità per il contribuente. Più in dettaglio, nell’ambito dell’adempimento collaborativo il controllo del rischio fiscale è innanzitutto demandato all’impresa stessa: i soggetti che intendono aderire al regime di adempimento collaborativo devono essere in possesso, alla data di presentazione della domanda, di un efficace sistema di controllo del rischio fiscale inserito nel contesto del sistema di governo aziendale e di controllo interno (Tax Control Framework) [5]. Il sistema è efficace quando è in grado di garantire all’impresa un presidio costante sui rischi fiscali. A tali fini, il sistema deve presentare i seguenti requisiti essenziali [6]: –   strategia fiscale; –   ruoli e responsabilità; –   procedure; –   monitoraggio; –   adattabilità al contesto interno ed esterno; –   relazione agli organi di gestione. Inoltre, il rischio viene gestito ex ante: il regime di adempimento collaborativo introduce innovazione nel rapporto tributario, prevedendo nuove modalità di interlocuzione costante e preventiva con l’Agenzia delle Entrate, con la possibilità di pervenire a una comune valutazione delle situazioni suscettibili di generare rischi fiscali prima della presentazione delle dichiarazioni fiscali. Tale previsione offre l’opportunità di gestire le situazioni di incertezza attraverso un confronto preventivo su elementi di fatto che può ricomprendere anche l’anticipazione del controllo e si presta, pertanto, a prevenire e a risolvere anticipatamente le potenziali controversie fiscali [7].


3. La misurazione del rischio fiscale per le piccole e medie imprese e per il lavoro autonomo: la necessità di un rating fiscale

Completamente differente rispetto a quanto descritto in precedenza è la fattispecie delle imprese medie e piccole: in tal caso, dato il numero elevato dei soggetti e le ridotte dimensioni, è più efficiente un indicatore di rischio sintetico, che possa in qualche modo correggere uno dei tipici vulnus del nostro sistema tributario, ovverosia la precaria affidabilità delle scritture contabili delle imprese di minore dimensione e dei lavoratori autonomi. Infatti, laddove le dimensioni dell’attività (d’impresa o di lavoro autonomo) sono minori, e la proprietà dell’impresa coincide con la sua gestione, si rileva una maggior propensione all’occultamento dei ricavi attraverso la mancata contabilizzazione degli stessi. Nel prosieguo, pertanto, si descrivono i rimedi che in passato il legislatore ha stabilito al fine di ovviare a tali problematiche, per poi procedere ad una disamina dell’attuale regime, che si basa sugli indici sintetici di affidabilità fiscale (ISA).


3.1. La disciplina antecedente agli ISA

Si può parlare di rating fiscale in senso “proprio” solo da circa due anni a questa parte, a partire, in sostanza, dall’introduzione degli indici sintetici di affidabilità. Infatti, prima di tali indici non sarebbe corretto – se non lato sensu – parlare di rating fiscale, quanto piuttosto di predeterminazioni normative utilizzabili essenzialmente in sede di accertamento, e volte a rimediare alle distorsioni accennate in precedenza, specie in relazione al tema dell’occultamento dei ricavi e ai conseguenti problemi circa l’affidabilità delle scritture contabili delle imprese di minore dimensione e dei lavoratori autonomi. Per rimediare a tale difficoltà nell’accertamento, sono stati introdotti nel 1998 gli studi di settore, che giungevano effettivamente a dare dei giudizi di “merito” in relazione alla situazione fiscale rappresentata dal contribuente, ed in particolare secondo parametri di congruità e di coerenza. Ciò nonostante, non pare sostenibile un’assimilazione di questi strumenti al rating, in considerazione del fatto che essi erano utilizzati principalmente in sede di accertamento, che comunque fornivano un giudizio “binario” (congruo/non congruo; coerente/non coerente) e che non recavano sostanzialmente alcun effetto premiale in caso di giudizio positivo. Del resto, occorre considerare che già nel decennio precedente, a partire dal 1989, furono introdotti dei coefficienti presuntivi relativi a compensi, corrispettivi e volumi d’affari, attraverso i quali l’amministrazione finanziaria poteva rideterminare i ricavi senza dover previamente disattendere le scritture contabili del soggetto (salvo una preventiva richiesta di chiarimenti allo stesso, a pena di nullità dell’avviso di accertamento). Tali coefficienti presuntivi, poi evolutisi nei c.d. parametri (che a differenza dei primi, invero molto “naïf”, tenevano conto anche del settore, del­l’am­bito territoriale e del livello di attività) furono poi sostituiti dagli studi di settore che, sebbene introdotti nel 1993, entrarono in vigore nel 1998 unitamente a nuovi indici presuntivi di compensi e ricavi. A tali fine, è interessante considerare che si è dibattuto molto negli anni sulla natura degli studi di settore, specie sulla questione se essi rappresentassero una presunzione dotata dei [continua ..]


3.2. L’introduzione degli ISA

Il d.l. n. 193/2016 ha previsto la sostituzione degli studi di settore con indici sintetici di affidabilità fiscale o ISA, che sono stati successivamente oggetto di regolamentazione da parte dell’art. 9-bis del d.l. n. 50/2017 e della Legge di Bilancio 2018 (legge 27 dicembre 2017, n. 205), che ne ha disposto l’appli­cazione a partire dal periodo d’imposta 2018 (ovverosia, in sostanza, dal modello Redditi 2019). Contrariamente agli studi di settori, gli ISA possono in effetti definirsi uno strumento di rating fiscale, in quanto attraverso un metodo economico-sta­tistico (metodo che hanno in comune con gli studi di settore) forniscono un valore di sintesi, espresso tramite un punteggio da 1 a 10, in relazione all’af­fidabilità ed alla correttezza fiscale del contribuente. Di talché i contribuenti che sono ritenuti, in un arco temporale di 8 anni, come “affidabili” dal punto di vista fiscale (generalmente, coloro che hanno un punteggio uguale o superiore ad 8) hanno accesso ad un regime premiale che comporta alcuni benefici significativi. Il Direttore dell’Agenzia delle Entrate con uno specifico provvedimento (prot. 10 maggio 2019, n. 126200) ha indicato le soglie minime di punteggio necessarie per accedere ai benefici fiscali previsti dal legislatore. Questo dovrà essere conseguito per ogni tipologia di reddito conseguito dal contribuente per il quale sia stato elaborato un indice di affidabilità, come nel caso di reddito di impresa o di lavoro autonomo. In ultimo, nello stesso provvedimento è stato altresì chiarito che in caso di punteggio inferiore a 6, il contribuente sarà oggetto di specifiche strategie di controllo basate sull’analisi del rischio di evasione fiscale.


4. Osservazioni conclusive

In base a quanto esposto in precedenza, è possibile notare come nell’ordi­namento tributario il concetto di “rating fiscale” sia invero piuttosto recente, in quanto, solo con l’introduzione degli ISA, e solo in relazione a determinate categorie di contribuenti, tale strumento trova ad oggi concreta applicazione. Ciò non è necessariamente un sintomo di una mancata attenzione ai temi legati alla misurazione del rischio fiscale. Infatti, è indubbio che per talune categorie di soggetti, quali ad esempio le grandi imprese e i gruppi multinazionali, sia più efficace una valutazione analitica del rischio da parte dell’Agenzia delle Entrate, laddove invece una misura sintetica è efficace qualora ci si trovi davanti ad una platea molto numerosa di contribuenti quali le piccole imprese e i lavoratori autonomi, in relazione ai quali una misurazione sintetica può in via di principio consentire all’Amministrazione finanziaria di discriminare le situazioni di rischio più problematiche in maniera efficiente. È tuttavia opportuno considerare al riguardo che gli ISA sono stati implementati nell’ordinamento solo negli ultimi anni, per cui le valutazioni circa l’efficienza e l’efficacia di tali strumenti ad oggi possono essere unicamente preliminari e non conclusive. Sarà pertanto di sicuro interesse, nei prossimi anni, esaminare se tale strumento sarà stato effettivamente in grado di incrementare l’efficienza del sistema fiscale nell’ambito della misurazione del rischio e della conseguente attività di accertamento.


NOTE