Diritto ed Economia dell'ImpresaISSN 2499-3158
G. Giappichelli Editore

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Licenziamento e codice civile: un matrimonio impossibile? (di Mauro Mollo, Giudice del Tribunale di Torino, Sezione Lavoro)


Lo scritto offre un approfondito esame della natura (civilistica) dei vizi del licenziamento, nonché delle conseguenze pratiche, avuto riguardo al licenziamento sia nullo, sia illegittimo. In tale prospettiva di analisi, in primis, l’autore esamina le varie categorie di vizi che possono affliggere il licenziamento secondo le numerose norme che si sono succedute nel tempo. In secondo luogo, egli opera un confronto con le figure di invalidità civilistiche. Da ultimo, alla luce dell’approfondita analisi prospettata, la trattazione si conclude con interessanti riflessioni di sintesi sulla materia.

Dismissal and civil code: an impossible marriage?

The paper offers an in-depth examination of the (civil) nature of the vices of dismissal, as well as of the practical consequences, having regard to both null and unlawful dismissal. From this perspective of analysis, first of all, the author examines the various categories of defects that can afflict dismissal according to the numerous rules that have occurred over time. Secondly, he makes a comparison with the figures of civil disability. Lastly, in light of the in-depth analysis proposed, the discussion ends with interesting summary reflections on the subject.

SOMMARIO:

I. Premessa - II: il licenziamento; un excursus storico - 1. Il Codice Civile: un contratto come tanti - 2. La contrattazione collettiva: la presa di coscienza “dal basso” - 3. La rivoluzione copernicana della legge n. 604/1966: la nascita di un monstrum? - 4. L’art. 18, legge n. 300/1970: il culmine della tutela - 5. La riforma Fornero: luci e ombre - 6. Il c.d. contratto a tutele crescenti: la residualità della reintegrazione - III: i vizi del licenziamento - 1. Il licenziamento inesistente - 2. Il licenziamento invalido - a. Il licenziamento nullo - b. Il licenziamento annullabile - c. Il licenziamento rescindibile - 3. Il licenziamento inefficace - d. Il licenziamento orale - e. licenziamento in assenza della comunicazione dei motivi - f. licenziamento intimato da soggetto privo del potere di disporre del diritto - g. Considerazioni sulle ipotesi di inefficacia - 4. Il licenziamento illegittimo - IV: una possibile ratio - 1. Primo passo: riordinare le cause di invalidità - 2. Secondo passo: individuare la particolarità delle cause di illegittimità del licenziamento - 3. Terzo passo: esaminare la posizione giuridica attiva - a. Licenziamento intimato in caso di trasferimento d’azienda - b. Licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto - V: conclusioni - NOTE


I. Premessa

“Voglia l’Ill.mo Tribunale dichiarare nullo e/o annullare, revocare o comunque dichiarare invalido e/o illegittimo il licenziamento impugnato e, per l’effetto…”. Queste sono le tipiche conclusioni, pressappoco, di un ricorso per impugnazione di licenziamento. A un giurista avvezzo al diritto civile, appaiono indubbiamente singolari, se non inammissibili: è infatti evidente che chiedere la dichiarazione di nullità di un atto, rispetto che l’annullamento, la revoca o altro, implica causae petendi e petita differenti che non possono, in alcun modo, essere considerati equivalenti. Eppure le conclusioni sopra riportate, anche se non copiate da un vero ricorso, sono assolutamente di tenore analogo a quelle di un tipico atto giudiziale; sicuramente, non si può ritenere che il foro (o il giudice) ignori la distinzione tra nullità, annullabilità e altri vizi dell’atto: allora, perché tale confusione in merito alle conseguenze dell’accoglimento della domanda? O meglio; normalmente le conseguenze sono correttamente e dettagliatamente indicate: il pagamento di un’indennità tra le 2,5 e le 6 mensilità della retribuzione globale di fatto, piuttosto che la reintegrazione sul posto di lavoro o altre richieste indennitarie. La confusione, al contrario, riguarda lo strumento grazie al quale tali conseguenze sono raggiunte; in chiari termini: il licenziamento impugnato dovrà essere dichiarato nullo, annullato, revocato, dichiarato illegittimo o cosa? L’ulteriore paradosso, sempre muovendosi dall’ottica del giurista di diritto civile, è che, indipendentemente dalla soluzione adottata, le conseguenze sono pressappoco le medesime (questo era ancor più vero prima del 2012): il licenziamento, se intimato da un datore di lavoro con meno di 15 dipendenti in un’unica unità produttiva, se dichiarato illegittimo darà diritto a un’inden­nità tra le 2,5 e le 6 mensilità. Il civilista puro non potrebbe che strabuzzare gli occhi: come possono essere uguali le conseguenze se il vizio, così come il contenuto della pronuncia sull’atto, sono diversi? Il presente scritto prende le mosse da queste semplici [1] considerazioni, nonché da un ulteriore constatazione: l’esame della natura (civilistica) dei vizi del licenziamento è stato a lungo trascurato, per [continua ..]


II: il licenziamento; un excursus storico

Il licenziamento, a partire dal 1942 ad oggi, è stato oggetto di innumerevoli interventi legislativi, ognuno dei quali ha introdotto ipotesi di vizi dell’atto e di conseguenze a fronte della dichiarazione di illegittimità dello stesso. La ragione di questo ipertrofico intervento legislativo si può agevolmente individuare nel significato che ha assunto la tutela contro il licenziamento: questa, a torto o a ragione, è ormai ritenuta il livello di protezione che il diritto del lavoro attribuisce ai lavoratori. Basti richiamare l’attenzione sul dibattito che ha accompagnato i tentativi di modifica dell’art. 18, legge n. 300/1970 e l’introduzione del c.d. contratto a tutele crescenti: è difficile immaginare altre norme di diritto civile la cui modifica (o abolizione) abbia causato i confronti, discussioni, rivendicazioni e prese di posizione che si sono verificati in questo caso. Il valore della stabilità del rapporto di lavoro, inteso come la possibilità del dipendente di reagire ponendo nel nulla il licenziamento illegittimo, è tradizionalmente ritenuto condizione per la difesa di tutti i diritti del lavoratore; espressione di questa convinzione è la nota sentenza della Corte Costituzionale 63/1966, la quale ha sancito che la prescrizione dei diritti dei lavoratori non decorre in corso di rapporto, se questo non è assistito da una garanzia di stabilità [3]. I fattori che sono coinvolti nella materia in questione sono molteplici e spesso contrastanti: la volontà di equilibrare la diversità delle parti e le ragioni dell’economia, le esigenze di tutela di diritti costituzionalmente garantiti e gli interventi finalizzati ad incentivare l’occupazione; tutti motivi che hanno portato alla stratificazione legislativa di cui ci andremo ad occupare.


1. Il Codice Civile: un contratto come tanti

L’impianto originario del codice civile, com’è noto, risente dell’ispirazione liberale e liberista: i cittadini sono liberi e uguali e agiscono in una società dove lo Stato deve limitarsi a difendere le libertà fondamentali e, di conseguenza, ingerirsi il meno possibile nel mercato, poiché questo, al suo interno, contiene già gli strumenti per trovare, autonomamente, il proprio equilibrio. A ciò si aggiunge che, per il legislatore dell’epoca, il lavoro era indirizzato alla realizzazione di un pubblico interesse, ossia la “produzione nazionale”, interesse che è definito dalla stessa legge “superiore” rispetto a quello delle parti (si veda l’art. 2104 c.c.). Pur essendo coscienti che quanto appena scritto rappresenta una estrema semplificazione, si ritiene che sia sufficiente a delineare il background sotteso alla, sostanziale, assenza di tutela nei confronti del licenziamento. Le norme dedicate alla risoluzione del rapporto sono otto (dal 2118 al 2125 c.c.), ma solo le prime due contengono la disciplina dell’estinzione del rapporto di lavoro, mentre le altre riguardano l’indennità di anzianità [4] e altri aspetti eventuali come il rilascio del certificato di lavoro o il patto di non concorrenza. Intanto, appare interessante rilevare, seppur in un contesto che trova le sue radici nella tradizione liberista e che disciplina il rapporto di lavoro, di conseguenza, come un contratto tra cittadini liberi e uguali, che il recesso del datore di lavoro viene qualificato “licenziamento” [5]: da ciò traspare che il legislatore dell’epoca, anche se implicitamente, aveva ben presente la differenza sostanziale tra il recesso di una o dell’altra parte del rapporto di lavoro. La tutela contro il licenziamento, pertanto, non era affatto mirata alla ricostituzione del rapporto di lavoro; anzi, il risultato che il dipendente ingiustamente licenziato poteva ottenere non era collegato al diritto alla prosecuzione del rapporto. Infatti, le ipotesi per cui si poteva individuare un interesse del lavoratore a impugnare un licenziamento sono – o meglio, erano: –   per ottenere il pagamento dell’indennità di mancato preavviso, nel caso in cui il giudice avesse accertato l’assenza di una giusta causa di recesso; –   per ottenere il pagamento [continua ..]


2. La contrattazione collettiva: la presa di coscienza “dal basso”

La possibilità di sindacare i motivi del licenziamento affiorò negli anni ‘50 in sede sindacale. All’epoca si susseguirono diversi Accordi Interconfederali volti a introdurre alcune limitazioni al potere di licenziamento nel settore dell’industria, fornendo una disciplina sia in caso di licenziamenti individuali sia nel caso di riduzioni collettive di personale. Il primo Accordo Interconfederale è quello del 1947, poi sostituito con due accordi nel 1950, uno per i licenziamenti individuali, volto a prevenire i licenziamenti ingiustificati ed uno per le riduzioni di personale [7], a loro volta sostituiti da due accordi del 1965 [8]. L’Accordo Interconfederale del 1947 trattava dei “Licenziamenti per riduzione di personale” e dei “Licenziamenti individuali” all’interno dell’art. 3. Per i “Licenziamenti per riduzione di personale” era stato previsto l’obbligo di comunicare alla Commissione interna i motivi del licenziamento eseguito. Inoltre, era stata introdotta una procedura di conciliazione tra Direzione e la Com­missione interna e, in caso di mancato accordo tra queste, il deferimento della questione alle Organizzazioni interessate – Camera del Lavoro e Associazione territoriale degli industriali – le quali cercavano di pervenire ad un accordo. Già in tale disposizione era stato previsto, per l’azienda che avesse eseguito nuove assunzioni, entro un anno dal precedente licenziamento, l’obbligo di riassunzione dei lavoratori in precedenza licenziati per riduzione di personale. La Commissione interna doveva essere informata altresì nei casi di “licenziamenti individuali” per motivi disciplinari, per scarso rendimento o per altri motivi. In tale occasione, nella procedura conciliativa, la Commissione interna aveva il potere di verificare se i fatti, posti a base del licenziamento, fossero realmente sussistenti o comunque tali da giustificare il licenziamento. In caso di mancato accordo tra la Direzione e la Commissione interna, la questione poteva essere deferita a un Collegio arbitrale che aveva il potere di verificare se il licenziamento fosse giustificato o meno. Gli accordi successivi trattavano separatamente i “licenziamenti per riduzione di personale” dai “licenziamenti individuali”. In particolare, l’Accordo Interconfederale del 20 dicembre 1950 si [continua ..]


3. La rivoluzione copernicana della legge n. 604/1966: la nascita di un monstrum?

È nel 1966 che si realizza la rivoluzione copernicana in merito alla ricostruzione teorica del licenziamento come atto che, si può affermare, costituisce categoria a sé. Sebbene la tutela prevista da tale legge, c.d. obbligatoria, sia indubbiamente molto più debole rispetto a quella introdotta quattro anni dopo dall’art. 18, legge n. 300/1970 (c.d. tutela reale), è nei pochi articoli contenuti in tale impianto normativo che si delinea la disciplina del licenziamento che lo caratterizza tutt’oggi. Ai fini della trattazione, è necessario un esame degli articoli più significativi della legge, che si apre con una chiara enunciazione di principio: “Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 del Codice civile o per giustificato motivo” (art. 1). Ventiquattro anni separano questa legge dall’approvazione del codice civile, ma il contesto politico, istituzionale, economico e sociale è radicalmente cambiato. Senza alcun intento di esaustività, nel 1966 la Costituzione Repubblicana compie ormai la maggiore età: com’è noto, questa indica il lavoro quale valore fondante della Repubblica (art. 1), diritto e dovere di ogni cittadino (art. 4), dedicando una serie di norme a tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori. Manca, come avrà modo di rilevare la stessa Consulta, la costituzionalizzazione del diritto alla tutela contro il licenziamento illegittimo. La società è profondamente cambiata e così l’economia: l’Italia da paese prevalentemente agricolo si è trasformata in una società industriale, con la conseguente centralizzazione dei capitali e la nascita di una classe operaia e proletaria. La concezione liberista del rapporto di lavoro come di un contratto tra liberi e uguali, già anacronistica ai tempi del codice civile, è ormai superata. Da un punto di vista tecnico, ai fini della presente trattazione, appare opportuno soffermarsi su due punti. Il primo è l’individuazione dei destinatari della norma: tutti coloro per cui la stabilità del posto di lavoro non [continua ..]


4. L’art. 18, legge n. 300/1970: il culmine della tutela

Soltanto quattro anni dopo entra in vigore la norma che, comprensibilmente, è stata ritenuta il più forte baluardo del lavoratore, poiché la tutela del posto di lavoro è sempre stata considerata la vera garanzia per rendere effettivi i diritti dei dipendenti. Come noto, l’art. 18 ha introdotto l’obbligo della reintegrazione sul posto di lavoro nel caso di licenziamento viziato: più in particolare, con una previsione che è rimasta immutata anche a seguito delle modifiche introdotte con la legge n. 108/1990, “il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”; ovviamente sempre che il datore di lavoro superi i requisiti dimensionali previsti nella stessa legge [13]. Nonostante l’enorme impatto che la nuova legge ha avuto, sui cui risvolti economici, politici, sociali, si sono scritti i proverbiali fiumi di inchiostro (per usare un eufemismo), dal punto di vista sistematico il contributo dell’art. 18 è, paradossalmente, abbastanza ridotto. Lo Statuto dei Lavoratori, per quanto riguarda la disciplina dei licenziamenti, mantiene inalterato l’impianto previsto dalla legge n. 604/1966: l’atto deve essere sorretto da giusta causa o da giustificato motivo e può essere dichiarato nullo per i motivi previsti dalla stessa legge n. 604, già richiamati in precedenza e contenuti nell’art. 4 di tale normativa [14]. In realtà, la stessa legge n. 300/1970 all’art. 15 ripropone le ipotesi di nullità già previste dalla legge precedente, in cui si afferma che “È nullo qualsiasi patto od atto diretto a: (…) b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero”, estendendo il divieto di discriminazione anche a quella di natura politica o religiosa e, dopo la riforma del 1990, razziale, di lingua o di sesso. Per quanto qui interessa, l’art. 18 riavvicina la disciplina del [continua ..]


5. La riforma Fornero: luci e ombre

Alle riforme che, se non si possono definire epocali, sicuramente sono state fondamentali per il diritto del lavoro, si sono aggiunte una serie di leggi speciali che hanno introdotto specifiche ipotesi di nullità a tutelare ipotesi in cui era necessaria una tutela maggiore. Si tratta di situazioni in cui il lavoratore (anzi, spesso la lavoratrice) è più debole ed esposto a possibili ricatti da parte del datore di lavoro. Com’è noto, sono i divieti di licenziamento a causa di matrimonio, per eventi legati alla gravidanza e alla nascita del figlio; per la fruizione di permessi al fine di assistere la prole o soggetti bisognosi di sostegno, fino a situazioni del tutto particolari (come il divieto di licenziare i lavoratori affetti dal virus HIV). Sono quindi interventi che riguardano ipotesi particolari e che hanno introdotto delle figure speciali di nullità del licenziamento. Non sorge infatti alcun dubbio in merito alla sanzione da applicare al provvedimento espulsivo: si tratta di una violazione diretta di una norma imperativa, un vero e proprio divieto di licenziare che quindi comporta, ai sensi dell’art. 1418 c.c., primo comma, la nullità dell’atto. La novella legislativa indubbiamente più rilevante da un punto di vista sia sistematico che di applicazione pratica è la riforma dell’art. 18, legge n. 300/1970 operata con l’art. 1, legge n. 92/2012 (c.d. “riforma Fornero”). La valutazione di tale intervento legislativo viene qui svolta non da un punto di vista meta giuridico, di impatto sociale e di equilibrio della tutela tra diritto al mantenimento del posto di lavoro e interesse dell’impresa, ma dal punto di vista di coerenza sistematica e delle conseguenze interpretative sottese alla pluralità di effetti della declaratoria di illegittimità del licenziamento. Com’è noto, l’art. 18 dopo tale riforma prevede quattro diversi livelli di tutela: –   tutela reintegratoria forte (comma 1: questa norma si applica a ogni datore di lavoro ed anche ai dirigenti): il lavoratore viene reintegrato sul luogo di lavoro e il datore di lavoro è condannato a pagare di un’indennità risarcitoria pari all’ultima retribuzione globale di fatto per il periodo intercorrente dal licenziamento all’effettiva reintegra, dedotto quanto percepito per lo svolgimento di altre attività [continua ..]


6. Il c.d. contratto a tutele crescenti: la residualità della reintegrazione

Infine, con il d.lgs. n. 23/2015 è stato introdotto nel nostro ordinamento non un nuovo contratto di lavoro, come sembrerebbe indicate la rubrica della legge, ma un diverso regime per sanzionare i licenziamenti illegittimi. Nonostante la concreta incidenza di tale riforma, che ha reso l’ipotesi di reintegra del tutto residuale, la stessa non ha inciso più di tanto dal punto di vista sistematico. Infatti, seppur limitando le ipotesi di tutela ripristinatoria, ripropone un analogo schema rispetto a quello contenuto all’art. 18, legge n. 300/1970 post riforma Fornero. Più nel dettaglio, le diverse conseguenze della declaratoria di invalidità del licenziamento sono previste dai seguenti articoli: –   art. 2: analogamente all’art. 18, comma 1, legge n. 300/1970, vengono contemplate le ipotesi di nullità del licenziamento e del licenziamento intimato oralmente per le quali vi è la tutela reintegratoria piena, ossia con il pagamento di tutte le retribuzioni, con un minimo di cinque mensilità di indennità e la possibilità per i lavoratori di scegliere il pagamento di 15 mensilità di retribuzione in luogo della reintegra. Vi sono alcune differenze rispetto alla norma previgente: in particolare, ora il licenziamento intimato in difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità del lavoratore, ai sensi degli artt. 4, comma 4, e 10, comma 3, legge n. 68/1999 è ritenuto nullo, diversamente da quanto previsto dall’art. 18, comma 7 [22]. Inoltre, la norma di chiusura è stata curiosamente formulata, prevedendo la tutela reintegratoria anche per gli “altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge” (sottolineatura aggiunta); attribuire un significato all’av­verbio appare arduo, in quanto la nullità è sempre prevista dalla legge. Ci si chiede se tale norma possa voler affermare che solo le nullità speciali, ossia solo quelle ipotesi in cui la legge prevede espressamente la nullità del licenziamento, sono comprese nell’art. 2, d.lgs. n. 23/2015, escludendo quelle di carattere generale previste dal codice civile; si tratterà più avanti questo aspetto, ma già ora si manifesta una certa perplessità qualora si volesse introdurre una graduatoria tra le ipotesi di nullità dell’atto; –   art. 3, [continua ..]


III: i vizi del licenziamento

Dopo il breve excursus storico, si può ora fare un prospetto riepilogativo delle categorie dei vizi del licenziamento e rispettive tutele, sulla base della stratificazione normativa. Vizio Norma Tutela Nullità Art. 18, comma 1, legge n. 300/1970; art. 2, d.lgs. n. 23/2015; nullità speciali Reintegra c.d. forte Inefficacia (licenziamento orale) Art. 18, comma 1, legge n. 300/1970; art. 2, d.lgs. n. 23/2015 Reintegra c.d. forte Inefficacia (mancanza di motivazione) art. 8, legge n. 604/1966; art. 18, comma 6, legge n. 300/1970; art. 4, d.lgs. n. 23/2015 Indennitaria c.d. debole Annullabilità (insussistenza fatto contestato) art. 18, comma 4, legge n. 300/1970; art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 Reintegra c.d. debole Annullabilità (violazione di specifiche norme) [26] art. 18, comma 7, legge n. 300/1970 Reintegra c.d. debole Illegittimità (ingiustificatezza) Art. 8, legge n. 604/1966; art. 18, comma 5, legge n. 300/1970; art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015; Indennitaria c.d. forte Illegittimità (vizi procedurali) art. 8, legge n. 604/1966; art. 18, comma 6, legge n. 300/1970; art. 4, d.lgs. n. 23/2015 Indennitaria c.d. debole Come si può agevolmente vedere, la sovrapposizione normativa ha generato una certa confusione nella previsione delle categorie di invalidità del licenziamento, che (come visto prima) si è cercato in qualche modo di sistemare con la riforma dell’art. 18, legge n. 300/1970: ma dalla lettura di questo stesso articolo di legge emergono incertezze interpretative non di poco conto. Come si era già accennato, la legge n. 604/1966 prevede, all’art. 2, comma 3, che “Il licenziamento intimato senza l’osservanza delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 è inefficace”; nella formulazione attuale, si riferisce al licenziamento intimato oralmente ed a quello privo di motivazione. Però, non solo (come si vedrà in seguito) l’inefficacia non è un vizio dell’atto, ma l’inido­neità dell’atto a realizzare effetti giuridici; soprattutto, il legislatore del 2012 ha voluto mantenere la categoria del licenziamento inefficace, che è però disciplinato all’interno dell’art. 18, legge n. 300/1970 da due [continua ..]


1. Il licenziamento inesistente

Si accenna a tale categoria, nonostante non si possa che affermare la sua inconsistenza dal punto di vista sistematico nonché la sua inutilità dal punto di vista pratico [27]. La categoria giuridica dell’inesistenza, se riferita a un atto civile, è infatti priva di fondamento normativo e si risolve, sostanzialmente, in una duplicazione della categoria della nullità. Può aver significato affermare l’inesistenza di un atto in altri settori, ad esempio nell’ambito del diritto processuale civile, al fine di individuare una forma di invalidità talmente radicale da non consentire alcuna sanatoria, come quelle previste agli artt. 156 e 157 c.p.c.; il tipico esempio che si porta è quello della sentenza non firmata dal giudice. Tale atto viene definito giuridicamente inesistente, proprio perché considerarlo “semplicemente” nullo porterebbe a risultati paradossali: per proseguire nell’esempio, una sentenza non firmata dal giudice ma non appellata nei termini previsti dalla legge potrebbe diventare definitiva, poiché i vizi di nullità si convertono in motivi di gravame. Questa esigenza non si rinviene però nel diritto civile. Il contratto o comunque l’atto giuridico nullo è improduttivo di effetti, non può essere convalidato, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, è rilevabile d’ufficio dal giudice e la relativa azione è imprescrittibile: non si comprende quale utilità, quindi, potrebbe avere l’introduzione di una categoria come l’inesistenza. Quanto appena affermato vale a maggior ragione con riferimento al licenziamento: la sua nullità lo rende improduttivo di effetti. D’altro canto, ci si chiede quale vizio potrebbe portare ad un licenziamento inesistente: al di là delle ipotesi di scuola, quali il licenziamento intimato ioci causa, la giurisprudenza ha talvolta definito inesistente il licenziamento intimato da un soggetto diverso dal datore di lavoro (Cass. civ., sez. un., 21 marzo 1997, n. 2517) [28]. La stessa Suprema Corte, però, lo ha altre volte qualificato, in modo sicuramente più corretto, come inefficace (Cass. civ., sez. lav., 16 giugno 1998, n. 5995) [29], evitando di utilizzare una categoria sconosciuta al nostro ordinamento e ponendo l’attenzione sul fatto che [continua ..]


2. Il licenziamento invalido

Si userà qui la dizione “licenziamento invalido” per qualificare il provvedimento espulsivo il cui vizio possa essere ricondotto alle forme di invalidità previste dal codice civile: nullità, annullabilità e rescissione.


a. Il licenziamento nullo

La nullità, com’è noto, rappresenta la più grave forma di invalidità prevista dal codice civile: nell’impianto codicistico, è caratterizzata da: –   imperatività della disciplina: la nullità ha una disciplina legale in quanto tende a tutelare interessi considerati di ordine pubblico; le ragioni di nullità si trovano esclusivamente nella legge; –   improduttività di effetti: l’atto nullo è altresì inefficace e la pronuncia che sancisce la nullità, di conseguenza, ha natura dichiarativa e non costitutiva; –   impossibilità di sanatoria: l’atto nullo non può essere sanato da un successivo comportamento della parte (o delle parti). L’unica possibilità è la conversione dello stesso, laddove ne sussistano i presupposti; –   possibilità di farla valere da parte di chiunque ne abbia interesse e imprescrittibilità dell’azione. Come si ha avuto modo di vedere, le ipotesi di nullità del licenziamento derivano, per la maggior parte, da norme speciali che sono state inserite nel nostro ordinamento per tutelare lavoratori in condizioni di particolare fragilità o per sanzionare recessi fondati su ragioni ritenute odiose (prima fra tutte, l’in­tento discriminatorio). Il licenziamento nullo è confluito, grazie alla sistemazione operata dalla legge n. 92/2012, comma 1, art. 18, legge n. 300/1970; di (quasi) analogo contenuto è l’art. 2, d.lgs. n. 23/2015. È però sufficiente leggere la norma per rilevare che la figura del licenziamento nullo non coincide appieno con la previsione della nullità contenuta nel codice civile, soprattutto (ma non solo) con riguardo le conseguenze della pronuncia giudiziale. i. Ragioni di nullità. – Per quanto riguarda le analogie con la disciplina classica, il licenziamento è nullo per violazione di norme imperative, come prescrive lo stesso art. 1418 c.c.; come si è visto in precedenza, le norme di questo tipo sono numerose e sono state dettate per soddisfare specifiche esigenze di tutela. È interessante rilevare che trovi un abbondante spazio anche la seconda parte del primo comma di detto articolo: infatti, le norme di diritto del lavoro sono per la maggior parte imperative, in quanto spesso fissano garanzie minime [continua ..]


b. Il licenziamento annullabile

È noto che nell’impianto del codice civile l’annullabilità è una figura che mira a tutelare gli incapaci o chi presta un consenso viziato da errore, violenza o dolo; logico corollario di tale impostazione è la possibilità di far valere l’annullabilità solo da parte del soggetto tutelato. Di conseguenza, le ipotesi in cui un licenziamento sarebbe annullabile (secondo le norme di cui agli artt. 1425 c.c. e seguenti) sono quelle in cui lo stesso venga intimato da un incapace o sia inficiato da un vizio del consenso: si può concordare che tale situazione è del tutto remota e, si dovrebbe dire, sconosciuta alla pratica. Sarebbe una forma di invalidità che potrebbe far valere solo il datore di lavoro, ossia il soggetto che pone in essere l’atto unilaterale recettizio viziato [35]. Quando però si tratta dell’annullabilità del licenziamento non si fa (normalmente) riferimento alle norme del codice civile, ma alla formulazione originale dell’art. 18, legge n. 300/1970, che prevedeva l’annullamento giudiziale del licenziamento non fornito di giusta causa o giustificato motivo; la norma, peraltro, poneva sullo stesso piano, in quanto agli effetti, l’annullamento e la declaratoria di nullità o di inefficacia dello stesso. La previsione è ripetuta nell’art. 18, comma 4, legge n. 300/1970 e nell’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, nei casi in cui la norma prevede la tutela reintegratoria; la ragione si può intuire. Infatti, sotto il regime dell’art. 18 sino alla legge n. 92/2012 e nelle due ipotesi summenzionate, il licenziamento viziato, qualora intimato da un datore di lavoro con i requisiti dimensionali previsti dal medesimo articolo di legge, è effettivamente posto nel nulla, in quanto il rapporto viene ricostituito tramite la sentenza, con l’obbligo di pagare le retribuzioni pregresse, seppur sotto forma di indennità risarcitoria. Nelle altre ipotesi, come è noto e come verrà esaminato in seguito, il licenziamento, seppur dichiarato illegittimo, interrompe il rapporto di lavoro. Nonostante la collocazione del ricorso per l’annullamento del licenziamento nell’ambito della generale azione di annullabilità, non si possono che evidenziarne le differenze. i. Ragioni di annullabilità. – L’annullabilità (da codice civile) [continua ..]


c. Il licenziamento rescindibile

Si prende in esame questa ipotesi di invalidità solo per completezza espositiva, in quanto è difficile persino a livello teorico immaginare un licenziamento rescindibile: si tratterebbe di un datore di lavoro che receda dal rapporto in stato di pericolo o con lesione ultra dimidium. Non si ritiene utile procedere a ulteriori riflessioni su una figura la cui utilizzazione, già scarsissima nel diritto civile ordinario, appare essere del tutto ipotetica nel caso di specie.


3. Il licenziamento inefficace

L’esame del licenziamento inefficace è complesso, perché la legislazione in materia è confusa e contraddittoria. La legge qualifica alcune ipotesi di licenziamento come inefficaci, collegandola ad un vizio genetico, anche se in realtà l’inefficacia non costituisce un vizio dell’atto bensì l’inidoneità dello stesso a realizzare effetti giuridici: l’inefficacia appartiene quindi al rapporto, non all’atto giuridico. Infatti, quando si parla di negozio inefficace questo non necessariamente è affetto da patologie – come invece accade quando si parla di negozio nullo, annullabile o rescindibile: vi sono atti invalidi ma efficaci, finché non oggetto di pronuncia giudiziale (primo fra tutti, il contratto annullabile) e atti validi, ma inefficaci, quali il negozio sottoposto a condizione sospensiva o a termine iniziale. Ancora, è inefficace il negozio posto in essere dal soggetto che non ha la disponibilità del diritto: l’atto è valido, ma è improduttivo dei suoi propri effetti giuridici finché il soggetto agente non acquista la titolarità del diritto che vorrebbe esercitare. Nel diritto del lavoro non solo vi è stata questa anomala scelta legislativa di definire il licenziamento inefficace assimilandolo a una species di invalidità, ma l’utilizzo della categoria è altresì contraddittorio. Infatti, con riferimento a determinate violazioni il legislatore, pur qualificando il licenziamento come inefficace, in realtà poi accorda una tutela c.d. indennitaria. Ciò vuol dire che, in teoria, il licenziamento in quanto inefficace non sarebbe idoneo a produrre alcun effetto e quindi a far cessare il rapporto di lavoro, ma – con riferimento a determinate ipotesi, ad esempio in assenza di motivazione, come meglio specificheremo in seguito – nonostante la declaratoria di inefficacia il rapporto di lavoro viene risolto. Originariamente, il licenziamento era inefficace qualora fosse intimato oralmente o non venissero comunicati i motivi nonostante la richiesta del lavoratore [37]; la legge n. 108/1990 ha introdotto alcune modifiche alla norma (ad esempio ampliando i termini per chiedere e comunicare i motivi) ma non ha mutato la previsione di inefficacia prevista al comma 3. La giurisprudenza ha poi introdotto altre figure di inefficacia, principalmente riferendosi [continua ..]


d. Il licenziamento orale

Si parla di licenziamento orale ogni qualvolta il datore di lavoro comunichi al lavoratore la volontà di interrompere il rapporto di lavoro in violazione della forma prescritta dal legislatore, ossia della forma scritta. Prima di analizzare la fattispecie, pare opportuno evidenziare come la giurisprudenza sia ormai unanime nel qualificare l’atto del licenziamento come atto unilaterale recettizio ex art. 1334 c.c. Conseguentemente, affinché la manifestazione negoziale sia efficace, occorre che la stessa sia rivolta ad un dato destinatario e portata a sua conoscenza nelle forme stabilite dalla legge o dalle parti. In tema di diritto del lavoro fino al 1966, in ossequio al generale principio di libertà della forma degli atti, il licenziamento poteva essere intimato tanto in forma scritta quanto in forma orale, non essendovi alcuna prescrizione in senso contrario. Solo con la legge 604 del 1966, infatti, il legislatore ha introdotto per la prima volta l’obbligo di forma e motivazione del licenziamento che si evince chiaramente dal dettato dell’art. 2. Il suddetto articolo infatti, al primo comma, nell’originaria formulazione così recitava: “l’imprenditore deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro”. Si comprende bene come, in un primo momento, il rispetto della forma scritta riguardava solo i datori di lavoro qualificati come “imprenditori”. Solo a far data dal 1990 tale prescrizione è stata estesa a tutti i datori di lavoro, indifferentemente quindi dalla qualifica di imprenditore o meno. Infatti, il legislatore con la legge n. 108/1990 ha disposto la modifica dell’originario art. 2, legge n. 604/1966 in tal senso: “il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro”. Nonostante la regola ormai generale del necessario rispetto della forma scritta al fine di assicurare l’efficacia dell’atto del licenziamento, la stessa lascia spazio in alcuni casi al principio di libertà di forma. Si tratta di ipotesi in cui, al datore di lavoro viene invece riconosciuta la possibilità di comunicare il recesso dal rapporto scegliendo una qualsiasi forma, tanto orale quanto scritta. Le categorie di lavoratori di cui si tratta sono: –   Lavoratori domestici; –   Lavoratori ultrasessantenni in possesso dei [continua ..]


e. licenziamento in assenza della comunicazione dei motivi

Come già anticipato, anche il licenziamento intimato in assenza della contestuale comunicazione dei motivi giustificativi è qualificato inefficace dal legi­slatore, ai sensi degli artt. 2, legge n. 604/1966 e 18, comma 6, legge n. 300/1970. Appare utile ripercorrere, seppur brevemente, l’evoluzione normativa sul punto. La legge n. 604/1966 nella sua formulazione originaria non richiedeva, ai fini della validità del licenziamento, la contestuale comunicazione dei motivi po­sti a fondamento della volontà datoriale di recedere dal rapporto di lavoro. L’art. 2, testo originale, della suddetta legge così recitava: “il prestatore di lavoro può chiedere, entro otto giorni dalla comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso” – solo a fronte di tale iniziativa, dunque, sorgeva in capo al datore di lavoro imprenditore l’obbligo di comunicare i motivi per iscritto ed entro 5 giorni della richiesta. I suddetti termini sono stati ampliati con la riforma di cui alla legge n. 108/1990 la quale li ha sostituiti, rispettivamente, con quindici e sette giorni. In siffatta situazione dunque, in assenza di richiesta da parte del lavoratore licenziato ovvero nel mancato rispetto del termine (di otto giorni prima e quindici poi) il licenziamento, anche se comminato omettendo l’indicazione dei motivi, avrebbe prodotto il suo effetto di risolvere il rapporto di lavoro. L’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori nel 1970 ha introdotto per la prima volta, all’art. 7, comma 2 la necessaria comunicazione preventiva degli addebiti, con esclusivo riferimento all’adozione di provvedimenti disciplinari (compreso il provvedimento espulsivo [45]); i motivi del licenziamento, ovviamente, dovevano essere coerenti con gli addebiti contenuti nella contestazio­ne disciplinare. Nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, invece, la comunicazione dei motivi continuava ad essere subordinata alla richiesta avanzata dal lavoratore. Il quadro normativo (anche) sotto tale aspetto è stato ulteriormente e sostanzialmente innovato a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 92/2012, la c.d. Riforma Fornero, la quale, modificando l’art. 2, legge n. 604/1966 ed in particolare – per ciò che ora ci riguarda – il secondo comma dello stesso, ha prescritto la necessaria contestualità della comunicazione dei [continua ..]


f. licenziamento intimato da soggetto privo del potere di disporre del diritto

Questa particolare vicenda non è contemplata da alcuna norma specifica, ma è tutt’altro che insolita. Le ipotesi in cui ricorre sono principalmente due: quando il licenziamento è intimato da soggetto diverso dall’effettivo datore di lavoro (si pensi al tipico caso di interposizione fittizia di manodopera), oppure qualora il recesso sia comunicato da persona che non è dotata dei poteri per risolvere il rapporto; in quest’ultimo caso, si può immaginare il licenziamento comunicato dall’amministratore delegato di una società, il quale però da statuto o per procura non abbia il potere di costituire o risolvere rapporti di lavoro. Nel primo caso la giurisprudenza è giunta a conclusioni non conformi, utilizzando spesso termini atecnici e definendo il licenziamento intimato dal soggetto interposto come radicalmente nullo, tamquam non esset, e così via [50]. Nel secondo caso, è stata introdotta una distinzione sulla base della natura pub­blica o privata del datore di lavoro. Infatti, è ormai posizione condivisa quella secondo cui il licenziamento intimato da un datore di lavoro privato non è annullabile anche se la persona che lo intima non è fornita dei poteri necessa­ri per adottare il provvedimento di recesso [51]. Al contrario, quando il datore di lavoro è di pubblico, non è possibile la ratifica del licenziamento, attesa la na­tura imperativa delle norme che attribuiscono i poteri disciplinari agli impiegati e ai dirigenti pubblici. Si deve rilevare che, in entrambi i casi, non sembra corretta la qualificazione del licenziamento in questione come nullo in quanto non incontra alcuno dei presupposti che la legge prevede al fine di riconoscere tale forma di invalidità. Infatti: –   non vi è alcun dubbio in merito al fatto che ricorrono tutti i presupposti per la validità dell’atto richiesti a pena di nullità dell’art. 1325 c.c. (ipotizzando che sia stato intimato in forma scritta): il formale datore di lavoro (o il soggetto che intima il licenziamento) aveva l’intenzione di recedere dal contratto, si tratta di un atto con causa tipizzata e l’oggetto ha i requisiti dell’art. 1346 c.c.; –   non viene violata alcuna norma imperativa, poiché non c’è alcuna previsione legislativa che vieta ad un terzo di [continua ..]


g. Considerazioni sulle ipotesi di inefficacia

Quanto esaminato sino a questo punto porta ad alcune considerazioni in merito alla correttezza della terminologia utilizzata dal legislatore. Si è infatti visto che le due ipotesi normativamente tipizzate di inefficacia, ossia il licenziamento orale e quello privo di motivazione, hanno conseguenze ben diverse dall’improduttività di effetti sul rapporto di lavoro. Paradossalmente, la disciplina civilistica dell’inefficacia dell’atto trova applicazione solo in ipotesi in cui il licenziamento non viene dichiarato inefficace dal legislatore, ossia quelle esaminate poc’anzi di licenziamento intimato da chi non è titolare del rapporto, poiché è il datore di lavoro soltanto formale oppure poiché si tratta di soggetto privo del necessario potere per intimare il licenziamento. Al contrario, le altre due ipotesi di licenziamento dichiarate dalla legge inefficace appaiono più correttamente così doversi qualificare: –   licenziamento orale: è un atto nullo per carenza di forma scritta prevista ad substantiam dalla legge; –   licenziamento privo di motivi: deve più correttamente qualificarsi come licenziamento illegittimo (vedi infra). Si tratta di un atto idoneo ad interrompere il rapporto (e qui è evidente la radicale differenza con gli atti inefficaci), ma ritenuto illegittimo dalla legge e che comporta il diritto alla percezione di un’indennità risarcitoria.


4. Il licenziamento illegittimo

Si è scelto di utilizzare questa terminologia per individuare tutti quei licenziamenti per cui la legislazione non prevede una specifica categoria di invalidità: si tratta delle ipotesi previste dall’art. 8, legge n. 604/1966, dall’art. 18, commi 5 e 6, legge n. 300/1970 e dagli artt. 3, comma 1 e 4, d.lgs. n. 23/2015; si è deciso di far rientrare in questa categoria dogmatica anche il licenziamento privo di motivazione, per quanto rilevato poc’anzi. Da un punto di vista sistematico, non vi sono particolari differenze tra il licenziamento viziato per motivi formali o per ragioni sostanziali, in quanto le norme di cui sopra prevedono in ogni caso che il rapporto venga risolto con condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria. Proprio questa categoria rivela la particolarità della disciplina legislativa dell’atto espulsivo: infatti, è evidente che si tratta di una forma di invalidità del tutto singolare e sconosciuta al diritto civile classico. È infatti indubitabile che l’atto sia geneticamente viziato in quanto in contrasto con norme imperative, quali indiscutibilmente sono quelle previste dalla legislazione con riferimento al recesso datoriale; altrettanto indiscutibilmente, le conseguenze non sono quelle della nullità dell’atto, poiché si è già osservato che il licenziamento è considerato nullo dalla legge solo con riferimento ad alcune precise ipotesi. Il legislatore non ha fornito indicazioni utili in merito alla collocazione dogmatica di questa categoria, poiché non viene definito il tipo di giudizio che affligge, in questo caso, il provvedimento espulsivo: utilizzando sempre la stessa formulazione della norma dal 1966 al 2015, la legge si limita a prevedere quale sanzione economica deve essere posta in capo al datore di lavoro quando risulti accertato che non ricorrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo. Il licenziamento che qui viene definito illegittimo è quindi un atto invalido ma non può essere ricondotto alla tipica tripartizione prevista dal codice civile (nullità/annullabilità/rescindibilità). La legislazione di settore infatti prevede questa particolare conseguenza: l’atto è idoneo a risolvere il rapporto e quindi produce i tipici effetti a cui è destinato; ma la sua adozione rappresenta un [continua ..]


IV: una possibile ratio

Giunti fin qui, occorre affrontare il problema che si era anticipato: la molteplicità di tutele approntate nei confronti delle diverse ipotesi di licenziamento viziato, per le più varie ragioni, è riconducibile a una qualunque ratio oppure si tratta di decisioni affidate, di volta in volta, a ragioni politiche ed economiche? È evidente che riuscire a individuare una ragione di fondo, che permetta di distinguere i casi in cui il licenziamento è da dichiarare nullo, annullare o da ritenere semplicemente illegittimo, risponde a un interesse non solo accademico, viste le incertezze che ancora persistono riguardo ad alcune particolari fattispecie (si pensi al licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto o in occasione di trasferimento d’azienda).


1. Primo passo: riordinare le cause di invalidità

L’esame svolto fin qui permette di riordinare le varie ipotesi di invalidità che, all’inizio del capitolo precedente, erano state presentate suddivise in base al tipo di tutela prevista dall’ordinamento. Si può ora affermare che le categorie di licenziamento invalido, esclusa l’utilità della categoria dell’atto inesistente, sono sostanzialmente tre: il licenziamento nullo, quello annullabile e quello illegittimo. Per quanto riguarda il licenziamento inefficace, si è già spiegato che quando questo termine è usato dal legislatore, in realtà individua un’ipotesi di licenziamento nullo (quello intimato in forma orale) o illegittimo (privo di motivi); il licenziamento inefficace correttamente inteso, ossia perché intimato da soggetto non titolare del rapporto di lavoro, è un atto valido ma improduttivo di effetti e per il quale l’ordinamento non appresta alcuna sanzione specifica. Un ulteriore riflessione porta ad affermare che le categorie del licenziamento annullabile ed illegittimo possono essere unificate: infatti, l’unica differenza tra queste riguarda il tipo di tutela, ma non i presupposti della stessa. Ciò è reso evidente dal contenuto dell’art. 18, comma 7, secondo periodo. Tale complessa norma prevede che il giudice “Può altresì applicare la predetta disciplina (quella del quarto comma) nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”. Si ha quindi una tutela differenziata sulla base di una scelta discrezionale del giudice che si fonda sulla valutazione della gravità della condotta datoriale: ossia, l’assenza del motivo oggettivo può portare all’indennità risarcitoria o alla reintegra sulla base della sua “manifesta insussistenza”. A giudizio di chi scrive, appare evidente che la medesima violazione di legge, ossia la carenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, debba realizzare il medesimo vizio. Si deve infatti osservare che le ipotesi di invalidità di licenziamento sono ascrivibili sostanzialmente a tre categorie: vizi di forma, licenziamenti vietati e licenziamenti non sorretti da [continua ..]


2. Secondo passo: individuare la particolarità delle cause di illegittimità del licenziamento

L’ulteriore riflessione che qui si propone è la seguente: vi è qualcosa che accomuna i licenziamenti che appartengono alle due categorie appena descritto? In altri termini: vi è una ratio che permetta di distinguere, ex ante, quando un licenziamento è nullo e quando è illegittimo? Quanto affermato in precedenza permette di fornire una prima risposta al quesito che ci si è appena posti. Il licenziamento viziato sotto il profilo formale non rappresenta particolari problemi, visto che la nullità è sancita soltanto nel caso di carenza di forma scritta: a ben vedere, si tratta della normale sanzione prevista dall’ordinamento nel caso di violazione del requisito della forma scritta ad substantiam, ai sensi del­l’art. 1350 c.c. Gli altri vizi formali del licenziamento sono invece sanziona­ti, a seconda della data di assunzione e delle dimensioni dell’azienda, dagli artt. 8, legge n. 604/1966, 18 comma 6, legge n. 300/1970 [56] e 4 d.lgs. n. 23/2015 (ossia sempre con la tutela indennitaria). Per quanto attiene al licenziamento viziato sotto il profilo sostanziale, quanto poc’anzi esposto porta ad affermare che vi è una ratio sottostante alla decisione legislativa di considerare nulli alcuni licenziamenti e (soltanto) illegittimi altri. Sono infatti considerati nulli dal legislatore, come risulta evidente dalla lettura dell’art. 18, comma 1, legge n. 300/1970 (ed al suo omologo art. 2, d.lgs. n. 23/2015), i licenziamenti adottati in presenza di un divieto. Come sintetizzato prima, il divieto di recedere può dipendere dalla condizione del lavoratore o dalla ragione che sottostà al recesso: si può infatti parlare di licenziamenti oggettivamente o soggettivamente nulli. Nella prima ipotesi, la particolare condizione del lavoratore o della lavoratrice rendono contra legem il licenziamento indipendentemente dalla ragione che lo sorregge, a meno che questa non rientri nelle particolari eccezioni previste dalla legge stessa. Il caso classico ed emblematico è la situazione della lavoratrice madre, la quale dall’inizio della gravidanza sino al compimento di un anno del bambino non può essere licenziata se non per le ragioni tassativa­mente indicate dalla legge (cessazione dell’attività aziendale, colpa grave della lavoratrice che integri giusta causa di recesso). Nella seconda ipotesi la decisione [continua ..]


3. Terzo passo: esaminare la posizione giuridica attiva

Sembra opportuno, a questo punto, cercare di comprendere quale sia la ragione giuridica [58] sottesa alla previsione di due diverse categorie di invalidità le quali entrambe conseguono, come si è già avuto modo di osservare, alla violazione di norme imperative. Non è infatti ragionevole introdurre una distinzione in merito al grado di “imperatività” delle norme poste a tutela dei licenziamenti illeciti [59]: sono infatti tutte sottratte all’autonomia negoziale e quindi inderogabili e trovano tutte fondamento nei valori costituzionali della tutela del lavoro. Appare invece preferibile prendere le mosse da quanto osservato in precedenza, ossia in merito al fatto che alcuni licenziamenti sono dichiarati nulli perché vietati dalla legge, mentre in altre ipotesi sono dichiarati annullabili o comunque illegittimi perché il potere datoriale è stato esercitato in modo difforme rispetto a quanto previsto dalle norme che ne disciplinano la messa in atto. La proposta interpretativa che qui si intende fare si fonda proprio su questa distinzione e consiste nel riconoscimento, in capo al lavoratore, di due posizioni giuridiche attive distinte sulla base del tipo di norma violata. Nel caso di licenziamento nullo, infatti, il dipendente ha diritto a non essere licenziato. Il potere datoriale non può essere esercitato, indipendentemente dal rispetto o meno delle forme e dei presupposti indicati dalla legge. Si prenda l’esempio classico, già più volte utilizzato, della lavoratrice licenziata durante il periodo protetto per gravidanza e puerperio. In questa situazione il datore di lavoro può recedere dal rapporto solo in ristrette e tassative ipotesi; in tutti gli altri casi, quella facoltà non può essere esercitata. Si potrebbe affermare che in tale occasione la parte è privata della facoltà di recesso, normalmente connaturata alla posizione attiva derivante dal contratto di lavoro. Analogamente, quando si pone in essere un licenziamento sorretto da un motivo illecito determinante, ci si trova dinanzi a una situazione in cui il potere datoriale di recesso non può essere esercitato: tale regola, d’altronde, è prevista nel codice civile per la generalità degli atti giuridici [60]. In questo caso, in­fatti, non è semplicemente assente il giustificato motivo o la giusta causa (art. 1, [continua ..]


a. Licenziamento intimato in caso di trasferimento d’azienda

È nota la previsione dell’art. 2112 c.c., comma 3, laddove si prevede che “Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento (...)”. La previsione ha creato un dibattito giurisprudenziale in merito alle conseguenze del licenziamento intimato in violazione della stessa [64]. Le due opinioni che si sono contrapposte sono discordi in merito al tipo di vizio che in questo caso ricorre, ossia se si tratti di licenziamento nullo o illegittimo per carenza di giustificato motivo oggettivo. L’opinione secondo cui il licenziamento intimato in occasione e a cagione del trasferimento d’azienda provochi la nullità del medesimo è collegata alla natura imperativa di tale norma che prevede che il rapporto di lavoro continui con il cessionario. L’opinione contraria, sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità più recente, è nel senso che non si applichi il regime della nullità del licenziamento ma quello della sua illegittimità per carenza di giustificato motivo oggettivo [65], sulla base dell’interpretazione letterale della norma e ritenendo che le ipotesi di nullità debbano essere restrittivamente intese. Si condivide la soluzione della Corte di Cassazione [66]: ai fini della presente trattazione, la fattispecie si innesta nella tesi proposta. Infatti, nel caso di trasferimento d’azienda non vi è un divieto di licenziare: ciò è reso evidente dalla premessa “ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti” del comma 4 in esame; però il trasferimento in sé non può essere un motivo valido per il recesso. Che significa? Che il datore di lavoro non perde la propria facoltà di recedere dal contratto, ma nella valutazione comparativa di interessi contrapposti non può rientrare il fatto di aver appena acquisito nuovi lavoratori a seguito di una cessione d’azienda. Nuovamente, si può vedere tale norma come un limite alla discrezionalità del datore di lavoro; ma dimostra anche, in realtà, che il diritto del dipendente a conservare la propria occupazione non è pieno, perché sarà recessivo qualora il datore di lavoro ponga a [continua ..]


b. Licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto

Un’altra ipotesi controversa, su cui si registrano opinioni discordanti, è quella del licenziamento intimato a causa di malattia ma prima che sia decorso il periodo previsto dall’art. 2110 c.c. Secondo un minoritario orientamento giurisprudenziale, il licenziamento non sarebbe viziato ma solo temporalmente inefficace sino al termine della malattia, quando produrrebbe gli effetti giuridici suoi propri. Secondo un’altra ricostruzione, il licenziamento adottato in violazione dell’art. 2110 c.c. è invalido, ma si discute se debba essere considerato nullo o semplicemente illegittimo; si ricorda che, attualmente, l’art. 18, comma 7, leg­ge n. 300/1970, dopo la riforma Fornero, prevede espressamente la tutela di cui al proprio comma 4 (reintegra debole) per i licenziamenti intimati in violazione di tale norma. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sent. 12658/2018, ha cercato di comporre il contrasto giurisprudenziale anche se, in realtà, si è soffermata soltanto sulla contrapposizione tra chi affermava che il licenziamento era temporalmente inefficace e chi invece sosteneva che lo stesso era viziato, argomentando l’insostenibilità della prima posizione la quale sarebbe stata, peraltro, affermata in pochissimi precedenti, e concludendo nel senso della nullità del provvedimento di recesso. Sebbene la conclusione della Suprema Corte debba essere condivisa per quanto riguarda la confutazione della tesi che limitava le conseguenze della violazione dell’art. 2110 c.c. alla mera temporanea inefficacia del provvedimento espulsivo [67], è invece criticabile la conclusione nel senso di affermare che il licenziamento in tal caso sia nullo. La Cassazione fonda il suo convincimento, sostanzialmente, sulla natura imperativa della norma violata: a pagina 14 della sentenza si legge infatti che “va evidenziato che il carattere imperativo della norma, in combinata lettura con l’art. 1418 stesso codice, non consente soluzioni diverse”, valorizzando l’importanza della tutela della salute, tutelata a livello costituzionale dell’art. 32 Cost. Nonostante l’autorevolezza del Consesso, la confutazione della teoria della mera ingiustificatezza del licenziamento appare essere relegata ad una sorta di logica circolare: la pronuncia afferma che “Né per definire come meramente ingiustificato il licenziamento intimato prima dello spirare [continua ..]


V: conclusioni

Si può quindi riepilogare quanto sinora detto al fine di rispondere ai quesiti che ci si è posti all’inizio della trattazione. Posto che tutte le norme in materia di licenziamento sono imperative, per cui distinguere le ipotesi di invalidità dell’atto di recesso sulla base della natura inderogabile o meno della norma non è utile, si è proposto un altro approccio. Come si è visto, le ipotesi di invalidità del licenziamento possono essere ricondotte a due categorie: il licenziamento nullo e quello che si è voluto definire illegittimo, in assenza di una migliore qualificazione. La prima categoria comprende il licenziamento nullo per carenza di forma scritta (che la legge impropriamente definisce inefficace) e quello intimato in ipotesi in cui sussiste un vero e proprio divieto di licenziare, per ragioni di tutela del lavoratore o della lavoratrice o perché la ragione per cui si decide di recedere dal rapporto è considerata illecita dall’ordinamento. In tale ipotesi il datore di lavoro non ha la facoltà di recedere dal rapporto e, rispettivamente, il lavoratore ha diritto a non essere licenziato: la conseguenza è, in ogni caso, quella tipica della nullità dell’atto, ossia la sua rimozione dall’ordinamento giuridico, a cui il diritto del lavoro aggiunge la sanzione speciale della reintegra, garantendo un risarcimento del danno al lavoratore che ha altresì le connotazioni, in certe ipotesi, di un danno punitivo. La seconda categoria riguarda i licenziamenti che, in contrasto con la normativa di settore, sono viziati da un uso scorretto della discrezionalità del datore di lavoro, che recede dal rapporto in assenza di giusta causa o giustificato motivo, oppure sono adottati violando le regole procedurali e formali previste per l’irrogazione del provvedimento espulsivo. In tal caso, la rimozione dell’atto non è un effetto automatico ma discende dalla volontà del legislatore di sanzionare in modo più o meno efficace il comportamento illegittimo del datore di lavoro, ossia di offrire una tutela più o meno intensa al lavoratore licenziato. In tali circostanze, appare corretto affermare che il lavoratore si trova in una situazione assimilabile a quella dell’interesse legittimo, anche se di diritto privato. Infatti, nel caso in cui il datore di lavoro utilizzi correttamente la propria [continua ..]


NOTE