Diritto ed Economia dell'ImpresaISSN 2499-3158
G. Giappichelli Editore

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La cessazione del contratto di affitto d'azienda nelle imprese in bonis (di Luciano M. Quattrocchio)


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SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Il dato normativo - 3. Le cause di cessazione del contratto - 4. L’individuazione dei beni oggetto di retrocessione - 5. Segue. L’avviamento - 6. La valutazione dei beni oggetto di retrocessione - 7. La determinazione delle differenze d’inventario - 8. Il risarcimento dei danni - 9. La disciplina del divieto di concorrenza - 10. Gli effetti della cessazione sui rapporti di lavoro - NOTE


1. Premessa

La cessazione del contratto di affitto d’azienda è un tema poco esplorato ma che presenta diversi profili problematici, quali, ad esempio, l’individua­zione delle cause di cessazione del contratto, la valutazione dei beni oggetto di retrocessione e la determinazione delle differenze d’inventario, la disciplina del divieto di concorrenza, gli effetti della cessazione sui rapporti di lavoro. Nel presente articolo ci si propone di delimitare le cennate aree problematiche, di illustrare la posizione della dottrina e della giurisprudenza ed infine di fornire una personale chiave di soluzione. Come è noto, l’affitto d’azienda determina una dissociazione, limitata nel tempo, fra la figura del proprietario dell’azienda, che non la esercita in proprio, e quella dell’affittuario che utilizza l’azienda di altrui proprietà per l’e­sercizio dell’impresa [1]. L’affitto di azienda è, dunque, destinato a realizzare un trasferimento a titolo di godimento – e, dunque, a carattere temporaneo – del­l’azienda. E la circostanza che il trasferimento abbia carattere temporaneo comporta che al termine del contratto l’azienda affittata ritorni nella disponibilità del proprietario. Un primo problema che occorre affrontare è se l’affitto dell’azienda comporti necessariamente l’assunzione, in capo all’affittuario, della qualità di imprenditore, cioè se l’affitto d’azienda determini un obbligo di gestione in capo all’affit­tuario. La questione non è priva di rilevanza pratica poiché soltanto in caso di risposta affermativa si dovrà concludere che l’affittuario non possa rimanere inerte, ma anzi assuma l’obbligo di gestire l’azienda condotta in affitto. La giurisprudenza non si è mai occupata della questione, mentre ha affrontato, seppure indirettamente, l’opposto problema se il proprietario debba necessariamente assumere la qualità di imprenditore, risolvendo la questione in senso negativo. Nelle svariate pronunce dedicate alla questione la giurisprudenza ha, in particolare, osservato che costituisce affitto di azienda il contratto con il quale viene dato in locazione un complesso di beni (locali, arredamenti e attrezzature varie, servizi, ecc.) organizzati per l’esercizio di un’impresa, anche se non [continua ..]


2. Il dato normativo

L’affitto d’azienda costituisce un contratto di durata, avente per oggetto il godimento dell’azienda, e, in conseguenza della cessazione del contratto, l’af­fittuario è tenuto a riconsegnare l’azienda immediatamente ovvero entro il termine pattuito [7]. L’art. 2561, comma 2, c.c. prevede che l’affittuario debba «gestire l’a­zien­da senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza del­l’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte». L’affittua­rio assume dunque, come si è visto al paragrafo precedente, un dovere di gestione dell’azienda e contestualmente un potere di disposizione sui beni aziendali. Di conseguenza, al termine dell’affitto, l’azienda risulterà composta in tutto o in parte da beni diversi rispetto a quelli originari. Ed è proprio al fine di identificare le differenze fra la consistenza iniziale e quella finale del complesso aziendale che si prevede la redazione di un inventario all’inizio e al termine dell’affitto. In particolare, a norma dell’art. 2561, ult. comma, c.c., concernente l’usufrutto d’azienda, richiamato dall’art. 2561, relativo all’affitto d’azienda, «la differenza tra le consistenze d’inventario al­l’inizio e al termine dell’usufrutto (n.d.r. dell’affitto) è regolata in denaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto (n.d.r. dell’affitto). E come precisato dalla giurisprudenza [8], la differenza fra le consistenze di inventario all’inizio ed alla fine del rapporto, che, a norma dell’art. 2562 c.c., vanno regolate in denaro sulla base dei valori correnti al termine dell’affitto, devono essere considerate sia nel loro aspetto quantitativo, con riguardo, cioè, alle eventuali perdite e addizioni, sia nel loro aspetto qualitativo, con riferimento ai loro deterioramenti o miglioramenti. D’altronde, l’azienda è «un organismo continuamente mutevole nei suoi elementi, e le cui variazioni interne rispondono ad esigenze di competitività ed efficienza economiche» [9].


3. Le cause di cessazione del contratto

Il contratto di affitto d’azienda può sciogliersi per una delle cause tipiche di cessazione del contratto di affitto, disciplinato dagli artt. 1615 ss. In particolare, il contratto si scioglie alla sua scadenza naturale se questa è prevista nel contratto. E, se è prevista una durata, le parti non possono recedere in pendenza del contratto. Per contro, a norma dell’art. 1616 c.c., se le parti non hanno determinato la durata dell’affitto, ciascuna di esse può recedere dal contratto dando all’altra un congruo preavviso. E, nel caso di rinnovazione del contratto originariamente stipulato a tempo determinato, il contratto si rinnova non per la stessa durata originariamente pattuita dalle parti, ma a tempo indeterminato, con facoltà di ciascuna parte di recedere comunicando all’altra un congruo preavviso (come previsto dall’art. 1616 c.c.) [10]. Secondo il disposto dell’art. 1615, comma 1, c.c., l’affittuario deve curare la gestione della cosa ricevuta in affitto in conformità alla sua destinazione economica e all’interesse della produzione. Tale disposizione è sostanzialmente riprodotta nell’art. 2561, comma 2, c.c., a mente del quale l’affittuario «deve gestire l’azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte». In caso di violazione di tale norma, ed in particolare se l’affittuario non adempie tale obbligo o cessa arbitrariamente la gestione dell’azienda, il proprietario può chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento (comb. disp. dell’art. 2561, comma 3, c.c. e dell’art. 1618 c.c.) [11]. Lo si ricava dall’art. 1618 c.c., secondo cui il proprietario può chiedere la risoluzione del contratto «se l’affittuario non destina al servizio della cosa i mezzi necessari per la gestione di essa, se non osserva le regole della buona tecnica, ovvero se muta stabilmente la destinazione economica della cosa» [12]- [13]. E a tale fine si ritiene applicabile l’art. 1619 c.c., a norma del quale il proprietario «può accertare in ogni tempo, anche con accesso in luogo, se l’affittuario osserva gli obblighi che gli incombono». La dottrina [14] considera altresì probabilmente applicabile [continua ..]


4. L’individuazione dei beni oggetto di retrocessione

Quanto all’individuazione dei beni oggetto di retrocessione è necessario tenere conto del fatto che, ai sensi dell’art. 2561 c.c., l’affittuario dell’azienda: a) deve esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue (comma 1); b) deve gestirla senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte (comma 2). L’obbligo dell’affittuario di gestire l’azienda sotto la primitiva ditta è finalizzata alla conservazione dell’avviamento. Il potere-dovere di gestione si estrinseca invece nella facoltà di disporre di tutti quei beni aziendali, la cui alienazione è necessaria per consentire all’azienda di svolgere la sua vita normale, cioè dei beni e servizi prodotti dall’azienda; di consumare, per tale produzione, il capitale circolante; di sostituire il capitale fisso, quando ciò sia necessario o opportuno [18]. In altri termini, l’affittuario assume – da un lato – il dovere di gestire l’a­zienda e – dall’altro – il potere di disporre dei beni aziendali nei limiti segnati dalle esigenze della gestione [19]. E, tale potere di disposizione sussiste non soltanto rispetto al capitale circolante – ed in particolare alle scorte – ma anche relativamente al capitale fisso – cioè immobili, impianti e macchinari – purché gli atti di disposizione non alterino l’identità e l’efficienza dell’azienda. D’altronde, il proprietario ha interesse che sia conservata l’universalità dei beni che compongono l’azienda, non le singole parti: da tale circostanza deriva perciò la facoltà dell’affittuario di disporre degli elementi dell’azienda, che non siano strettamente necessari alla conservazione dell’azienda stessa [20]. Analogamente, l’affittuario assume il potere di acquistare ed immettere nell’azienda nuovi beni, che diventano di proprietà del concedente e sui quali l’affittuario conserva il diritto di godimento ed il potere di disposizione. E la legittimazione alla sostituzione degli impianti è espressamente ammessa dalla giurisprudenza [21], secondo cui nel contratto di affitto di azienda, l’avvenuta sostituzione da parte dell’affittuario [continua ..]


5. Segue. L’avviamento

Come si è già riferito, l’art. 2561, comma 1, c.c., stabilisce che l’affittua­rio dell’azienda deve esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue. Per l’af­fit­tuario l’uso della ditta costituisce non soltanto il contenuto di un diritto, ma anche e soprattutto oggetto di un obbligo specifico, considerato l’interesse del proprietario alla conservazione dell’avviamento, del quale la ditta è coefficiente essenziale [34]. Sebbene, come osservato dalla giurisprudenza, l’affitto di azienda sia configurabile anche se l’avviamento manca, essendo sufficiente che abbia per oggetto un complesso di beni organizzati per l’esercizio di un’impresa anche se, non essendo stato ancora iniziato detto esercizio, non può avere avuto luogo neppure l’acquisto della clientela [35]. L’obbligo di esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue trova, dunque, la propria ragion d’essere nell’esigenza di conservare intatto l’avvia­mento connesso all’azienda in capo al proprietario così da evitare che, al termine dell’affitto, si verifichi una sottrazione di clientela. L’affittuario deve, quindi, conservare l’azienda al proprietario «nella sua destinazione, funzionalità, identità e capacità di richiamo della clientela» [36]. Peraltro, l’avviamento è generato od accresciuto da tutta una serie di variabili che in parte sono influenzabili dall’affittuario. Si pensi, ad esempio, alle spese per pubblicità, alle ricerche di mercato, ecc. L’avviamento, dunque, può essere incrementato dall’affittuario nel corso dell’esecuzione del contratto. È, tuttavia, ampiamente discusso in dottrina e in giurisprudenza se l’avvia­mento prodotto debba dare luogo ad un indennizzo al termine dell’affitto. La giurisprudenza prevalente è orientata nel senso che l’affittuario non abbia diritto ad alcun compenso o indennità per l’incremento apportato all’avvia­mento. L’avviamento, infatti, non potendo essere concepito distintamente dal­l’azienda – cioè, non essendo un elemento autonomo bensì una qualità del­l’a­zienda – subisce necessariamente le sorti di questa; pertanto, al termine [continua ..]


6. La valutazione dei beni oggetto di retrocessione

I beni oggetto di retrocessione devono esser valutati sulla base dei valori correnti al momento della cessazione del contratto, affinché il confronto fra il valore dei beni inizialmente trasferiti all’affittuario e successivamente ritrasferiti al proprietario sia fatto su basi omogenee. Dunque, i criteri di valutazione da adottare nella stesura dell’inventario (iniziale e di quello) finale non sono quelli previsti per il bilancio d’esercizio. Infatti, il valore da assumere ai fini dell’inventario iniziale e finale è il «valore corrente» e non il «valore di costo» valido invece per il bilancio d’esercizio. Il «valore corrente» è costituito – in entrambi gli inventari – dal valore attuale, anche se superiore al costo, tenuto conto degli ammortamenti, il cui onere è posto a carico dell’affittuario. In particolare, le immobilizzazioni devono essere valutate in relazione al loro grado di utilizzabilità residua, cioè in base al loro valore di sostituzione, al netto degli ammortamenti, non rilevando invece il dal valore risultante dal costo storico [44]. Infatti, come sancito dall’art. 2561, comma 2, c.c., l’affittua­rio deve conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti: dal che discende che l’affittuario stesso è obbligato a riparare o a sostituire gli impianti che hanno perduto la loro efficienza. E gravano sull’affittuario i logorii anche nel caso che superino il totale dei guadagni di quest’ultimo. Infatti, l’affittuario in quanto imprenditore deve sopportare il rischio che i ricavi non coprano i costi, cioè il rischio d’impresa. Inoltre, come puntualizzato dalla giurisprudenza, la valutazione dei beni deve essere fatta avendo riguardo alla data di cessazione del contratto e non a quella di effettivo rilascio dell’azienda [45]; inoltre, la differenza tra le consistenze di inventario all’inizio e al termine del rapporto è regolata in denaro sulla base dei valori correnti al termine dell’affitto [46].


7. La determinazione delle differenze d’inventario

La differenza fra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine del­l’affitto deve esser regolata sulla base dei valori correnti al termine dell’affitto (art. 2561, ult. comma., c.c.); tale differenza dà luogo ad un credito o a un debito nei confronti del proprietario. Se non vi sono stati mutamenti nella composizione del patrimonio trasferito o se i mutamenti si sono limitati alla sostituzione delle scorte consumate con scorte di uguale qualità e quantità, non emergerà una differenza d’inven­ta­rio e pertanto nulla sarà dovuto né al proprietario né all’affittuario. In altri ter­mini, i semplici mutamenti di valore dell’azienda non comportano per l’affit­tuario differenze d’inventario. Così, ad esempio, se all’inizio l’azienda comprendeva merci di una determinata qualità A per una quantità pari a 100 unità del valore unitario di mercato (di allora) di 100, ed alla fine l’azienda comprende la stessa quantità della merce A del valore unitario di mercato (attuale) di 120, nessuna variazione è intervenuta nella consistenza d’inventario e pertanto nulla è dovuto all’affit­tuario. Se, viceversa, alla fine l’azienda comprende una quantità pari a 150 unità, la differenza d’inventario ammonta a 6.000 (50 x 120). L’affittuario può, inoltre, apportare all’azienda variazioni sostitutive o aggiuntive: sono «variazioni sostitutive» gli incrementi di un elemento – ad esempio di qualità A – e le diminuzioni di un altro elemento – di qualità B – che lascino immutata l’entità dell’azienda; sono «variazioni aggiuntive» i mutamenti di quantità di elementi aziendali che complessivamente incrementino l’entità dell’azienda; sono «variazioni diminutive» quelle che complessivamente riducono l’entità degli elementi aziendali. E, in caso di «variazioni aggiuntive», all’affittuario compete una differenza pari al valore corrente delle addizioni. Così, se l’affittuario ha incrementato le consistenze iniziali affrontando una spesa di 1.000 e, all’atto della cessazione dell’affitto, quelle maggiori consistenze hanno un valore di 1.200, la differenza è [continua ..]


8. Il risarcimento dei danni

Diversi sono i casi in cui l’affittuario può incorrere in un’azione finalizzata al risarcimento dei danni. In primo luogo, la mancata restituzione dell’azienda, alla scadenza del contratto di affitto, obbliga l’affittuario a risarcire i danni derivanti al locatore dalla ritardata consegna [47]. Peraltro, come osservato dalla giurisprudenza, il mero fatto che l’affittuario dopo la scadenza del contratto non abbia restituito l’a­zienda al locatore, ed abbia continuato egli stesso a gestirla, può determinare l’insorgere di responsabilità dell’affittuario per violazione dello specifico obbligo di restituzione, ma non comporta violazione del divieto di concorrenza stabilito dal penultimo comma dell’art. 2557 c.c., essendo tale ultima violazione configurabile solo dopo l’avvenuta restituzione dell’azienda al locatore. Un’ulteriore ipotesi di risarcimento del danno è costituito dal perimento fortuito delle scorte che, secondo la dottrina, grava sull’affittuario [48]. Per contro, la dottrina è prevalentemente orientata nel senso che il perimento fortuito delle immobilizzazioni gravi sul proprietario [49]. Di conseguenza, il deterioramento (fisico ed economico) e la distruzione (fisica ed economica) costituenti normali conseguenze della limitata vita degli impianti e della loro utilizzazione fanno carico all’affittuario, mentre i perimenti per cause diverse – purché non imputabili all’affittuario – sono a carico del proprietario. Pertanto, dall’in­ventario iniziale rivalutato, in sede di confronto con l’inventario finale, dovranno venire detratte le immobilizzazioni eventualmente perite per caso fortuito, secondo il valore che esse avevano al momento del perimento. Un caso particolare di risarcimento del danno è inoltre costituito dalle «variazioni illecite», quali ad esempio le riduzioni delle scorte al di sotto del livello normale per quell’azienda, gli acquisti di scorte in misura sicuramente eccedente le esigenze della gestione, le sostituzioni resesi necessarie per mancata manutenzione di preesistenti elementi aziendali, il mancato rimpiazzo di impianti necessario per la conservazione dell’efficienza dell’organizzazione, la sostituzione di un elemento con altro inopportuno o negligentemente scelto; l’ingiustificato incremento [continua ..]


9. La disciplina del divieto di concorrenza

L’art. 2557, comma 4, c.c., stabilisce che sul proprietario incombe un divieto di concorrenza per tutta la durata dell’affitto. Il divieto di concorrenza si concretizza nell’obbligo, incombente sul proprietario, di astenersi dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta. La norma è volta a tutelare l’af­fit­tuario da iniziative che possono essere assunte dal proprietario volte a sottrarre la clientela dell’azienda affittata, quale, ad esempio, l’inizio di una nuova attività d’impresa nello stesso settore di attività e nella stessa zona del­l’azienda affittata. È stato sollevata la questione se il divieto di concorrenza faccia capo anche all’affittuario al termine del contratto di affitto d’azienda. Infatti, come stabilito dal comma 1 dell’art. 2557 c.c., «chi aliena l’azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta». La giurisprudenza è orientata in senso favorevole all’applicazione del divieto di concorrenza alla scadenza del contratto di affitto d’azienda [52]. In particolare la Suprema Corte [53] ha sancito il principio secondo cui le disposizioni dell’art. 2557 c.c., concernenti il divieto di concorrenza in caso di trasferimento di azienda, trovano applicazione non soltanto con riguardo alle ipotesi di alienazione di questa, intesa in senso tecnico, ma anche a tutte quelle altre ove si avveri la sostituzione di un imprenditore all’altro nell’esercizio dell’im­presa, e, pertanto, anche in favore del proprietario di un’azienda nel caso che l’abbia data in affitto allorché l’azienda gli sia stata trasferita dall’affittuario per scadenza del termine finale o per altra causa negozialmente prevista. Pare corretto aderire a tale tesi giurisprudenziale e cioè ritenere che, in assenza di regolamentazione contrattuale, incomba sull’affittuario un divieto di concorrenza di durata quinquennale.


10. Gli effetti della cessazione sui rapporti di lavoro

L’art. 2112, comma 1, c.c. stabilisce che «in caso di trasferimento d’a­zien­da, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano». Il comma 2 aggiunge che «il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento». La disposizione è molto chiara e dispone in sostanza che in caso di trasferimento d’azienda vi è, da un lato, la successione automatica del cessionario dell’azienda trasferita nei rapporti di lavoro in atto con il cedente al momento del trapasso, con la sostituzione soggettiva nella posizione del datore di lavoro; dall’altro, sorge una responsabilità solidale del cedente e del cessionario con riferimento ai crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. In tale modo viene assicurata al lavoratore la continuità del rapporto di lavoro – con la conservazione del posto e della posizione contrattuale pregressa – e viene accentuata a suo favore la garanzia del pagamento dei crediti maturati prima del trasferimento. Tale disciplina vale certamente per il trasferimento dell’azienda dal proprietario all’affittuario in occasione della stipulazione del contratto di affitto. Occorre, peraltro, verificare se essa si applichi anche nel caso di retrocessione del complesso aziendale all’atto della scadenza dell’affitto. La dottrina e la giurisprudenza sono unanimemente orientate nel senso che tale norma trovi applicazione, sul riflesso che la fattispecie di cui all’art. 2112 c.c. ricorre anche nell’ipotesi di cessazione dell’affitto d’azienda – quale che sia la causa di essa – poiché in tale occasione di attua un (ri)trasferimento del­l’azienda dall’affittuario al proprietario; ovviamente, a condizione che il proprietario continui a utilizzare il complesso aziendale in funzione dell’eser­cizio della stessa attività imprenditoriale, nonostante il mutamento della persona dell’imprenditore [54]. La dottrina [55], in particolare, ritiene che il concetto di trasferimento assuma un significato atecnico molto ampio, non circoscritto al mero passaggio di pro­prietà, ma comprensivo di ogni negozio giuridico dal quale sorga la legittimazione all’esercizio del potere di gestione aziendale; [continua ..]


NOTE