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In merito all’utilizzo del marchio dell’azienda controllante, l’Agenzia delle Entrate può respingere la deduzione dei costi ritenuti fuori mercato: è quanto afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9615 del 5 aprile 2019. La Suprema Corte, interpretando in modo restrittivo l’art. 110, comma 7, del T.U.I.R. sul transfer pricing, ha accolto il ricorso dell’Agenzia, sottolineando che la detta norma specifica che «I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se deriva aumento di reddito». La normativa in esame è finalizzata – hanno sottolineato i giudici di legittimità – alla repressione del fenomeno economico del transfer pricing, «sicché la prova gravante sull’Amministrazione finanziaria riguarda non il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, mentre incombe sul contribuente l’onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute per valori di mercato da considerarsi normali». E, nel caso di specie, la partecipazione per oltre il 99% della cedente nella società ricorrente non giustificava la percentuale del 3,5% delle royalties dovute per l’utilizzo del marchio.