Diritto ed Economia dell'ImpresaISSN 2499-3158
G. Giappichelli Editore

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La mancata predisposizione di assetti adeguati e i rimedi giurisdizionali in ambito penalistico (di Maurizio Riverditi, Associato di diritto penale presso l’Università di Torino.)


Oggetto del presente intervento sono gli adeguati assetti organizzativi – intesi quale strumento per la tempestiva intercettazione della crisi d’impresa e della perdita della continuità aziendale –, i quali vengono esaminati da un punto di vista prettamente penalistico. L’au­to­re sottolinea la rilevanza nella disciplina fallimentare-penalistico del nuovo paradigma con­cettuale e normativo di cui agli artt. 2086 c.c. e 3 c.c.i. e l’importanza di una visione prospettica, programmatica e auto-responsabile dell’organo amministrativo. Vengono successivamente descritti i criteri da assumere quale parametro di giudizio nella valutazione, in ottica penalistica, del comportamento degli organi societari, con particolare attenzione ai criteri c.d. della “prevedibilità in concreto” e del “rischio consentito”, nonché alla teoria – di elaborazione giurisprudenziale – c.d. dei “campanelli di allarme”.

The subject of this speech are the appropriate organizational structures – intended as a tool for the timely interception of the business crisis and the loss of going-concern –, which are examined from a purely criminal point of view. The author underlines the relevance of the new conceptual and regulatory paradigm referred to in art. 2086 of the Italian Civil Code and to in art. 3 of the Corporate Crisis and Insolvency Code in bankruptcy-criminal law and the importance of a prospective, programmatic and self-responsible vision of the administrative body. The criteria to be taken as a fundamental judgment parameter in the evaluation, from a penal point of view, of the behavior of the corporate bodies are described below, with particular attention to the so-called criteria of the “predictability in practice” and the “permitted risk”, as well as the theory – of jurisprudential elaboration – so-called of the “alarm bells”.

Keywords: adequate organizational structures – bankrupcty – crimes – directors’ or auditor’s liability.

SOMMARIO:

1. Immutabilità del paradigma normativo versus mutamento del paradigma concettuale di riferimento - 2. Ridefinizione dei principi di riferimento: tempestività, proporzione e autoresponsabilità - 3. L’importanza delle valutazioni di contesto e prospettiche - 4. La rilevazione tempestiva della crisi nella prospettiva penalistica: A) La necessaria comprensione e contestualizzazione degli indicatori della crisi - 5. B) Il criterio della prevedibilità - 6. C) La ragionevolezza delle scelte compiute: la definizione del «rischio consentito» - 7. Segue. Il «rischio consentito» come elemento strutturale immanente del giudizio sull’operato degli organi societari nell’individua­zio­ne e gestione della crisi - 8. «Rischio consentito» e «teoria dei campanelli di allarme»: un binomio possibile e proficuo - 9. Una chiosa finale


1. Immutabilità del paradigma normativo versus mutamento del paradigma concettuale di riferimento

In via preliminare, va richiamato che la gestione ordinaria dell’impresa che opera in un dato contesto organizzativo è affidata a puntuali sistemi operativi quali, ad esempio, i sistemi di controllo interni, di pianificazione e controllo, informativi, amministrativo-contabili etc. e, nel contempo, è considerata come un complesso di rischi di varia natura che devono essere adeguatamente vigilati e fronteggiati al fine di non compromettere il principio della continuità aziendale. Le diverse categorie di rischi con cui si confronta l’impresa possono, in sintesi, ricondursi a rischi di mercato, ambientali, reputazionali, strategici, operativi, finanziari, da reato (connessi con il d.lgs. n. 231/2001) e ora, ai sensi dell’art. 2086 c.c., anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi di impresa e della perdita della continuità aziendale. Infatti, il d.lgs. n. 14/2019 ci pone di fronte ad una sfida concettuale dalle inevitabili ricadute operative: abbandonare l’approccio alla “crisi d’impresa” funzionale a garantire il ceto creditorio, nella prospettiva della espulsione del­l’impresa insolvente dal mercato, per dirigersi verso un obbiettivo conservativo, finalizzato a recuperare e mantenere all’interno della vita economica l’impresa ovvero le sue strutture produttive. Il mutamento del punto di osservazione è evidente ed altrettanto importante: mentre fino a ieri si sanzionavano le condotte lesive della par condicio e, in generale, delle garanzie per i creditori oggi la gestione procedimentalizzata della crisi diviene lo strumento fondamentale per assicurare le migliori possibilità di recupero del valore dell’impresa; e, in quest’ottica, diventa fondamentale garantire la massima tempestività nella rilevazione degli indicatori della crisi. Il perno a cui è ancorato il nuovo paradigma concettuale e normativo di riferimento è costituito dagli artt. 2086 c.c. e 3 c.c.i. (che, d’ora in avanti, per brevità indicherò come c.c.i.), che introducono un ampliamento della portata dei doveri degli amministratori (e della posizione di garanzia ad essi riferibile), con inevitabile riflesso sulla posizione dei sindaci e degli altri organi di controllo. L’imprenditore (individuale e collettivo) è tenuto ad adottare (non si tratta più di un mero [continua ..]


2. Ridefinizione dei principi di riferimento: tempestività, proporzione e autoresponsabilità

Adeguatezza dell’assetto organizzativo adottato e tempestività della rilevazione della crisi e delle contromisure adottate costituiscono i principi orientativi dell’agire degli organi. Per tal ragione, gli stessi indicatori della crisi debbono essere rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore (art. 13 c.c.i.). Ciò è tanto vero che è espressamente contemplata la possibilità (che, sussistendone i presupposti, è da intendersi quale vera e propria necessità) che non vengano adottati gli indici elaborati dal CNDCEC (art. 13, comma 2, c.c.i.), ma ne siano elaborati altri in grado di rispondere alle peculiarità della situazione concreta a cui si riferiscono, purché ne venga attestata l’adeguatezza e ne sia data informativa nella nota integrativa al bilancio. Ne discende, in modo abbastanza evidente, l’affermazione di un principio di proporzione e adeguatezza dell’assetto organizzativo (funzionale anche alla rilevazione tempestiva della crisi), che obbliga l’imprenditore a misurarsi, anche in questo campo, con un approccio fondato sulla specificità e, quindi, sull’autonormazione delle regole di comportamento e delle strategie organizzative in concreto adottate. Come è stato efficacemente sottolineato, «il tema degli adeguati assetti rappresenta il link fra la riforma societaria del 2003 – interconnessione degli artt. 2381 e 2043 c.c. (anche detta Riforma “Vietti”) e quella introdotta con il citato Codice della Crisi che apporta significative novità in tema di gestione, vigilanza e controllo delle imprese, richiedendo alle stesse l’effettuazione di un controllo “preventivo” finalizzato all’emersione precoce dello stato di crisi e ad una composizione assistita in un’ottica di conservazione di valori a­ziendali» [così P. VERNERO-R. FRASCINELLI, Atti del convegno Il Codice della Crisi d’impresa e dell’Insolvenza, tenutosi presso l’Unione Industriale di Torino, il 2 aprile 2019]. L’inevitabile precipitato del self-organisation approach è l’affermazione (rectius: il riconoscimento) di una chiara autoresponsabilità nella gestione del rischio-crisi. In questa prospettiva, allargando il campo di attenzione agli altri [continua ..]


3. L’importanza delle valutazioni di contesto e prospettiche

L’esperienza delle aule giudiziali rischia di assuefarci a ragionamenti basati sul sofisma post hoc propter hoc: un sofisma che, come ogni semplificazione acritica, vanifica e cancella l’importanza dell’analisi del contesto entro cui il fenomeno che si intende osservare si è sviluppato e che tralascia di considerare le inevitabili peculiarità del divenire storico che ha condotto quel fenomeno a prendere forma nel modo in cui si presenta, oggi, all’osservatore. Ciò vale anche per la crisi, quale momento anticipatorio e predittivo del­l’insolvenza (art. 2 c.c.i.), che, fondandosi sul concetto di probabilità, fornisce la misura «del rischio di insolvenza» ed esprime, sulla base di un’ordinata e sistematica analisi e valutazione di tutte le informazioni disponibili in un dato istante, la ragionevole convinzione del soggetto valutatore […] circa la possibilità che l’impresa diventi insolvente» [Quaderno 71, Commissione Controllo Societario CNDEC Milano, 2017]. A tal riguardo, si è messo in evidenza [Quaderno 71, cit.] che l’evoluzione della crisi passa attraverso fasi distinte, che comprendono l’incubazione (in cui si manifestano fenomeni iniziali di i­nefficienza), la maturazione (in cui si incominciano a intaccare le risorse a­ziendali) e sfocia nella crisi conclamata (in cui si osservano gravi squilibri finanziari). L’intercettazione dello stato di crisi e, dunque, la sua collocazione in una determinata fase temporale (con le conseguenze che vi sono riconnesse anche sul piano delle responsabilità), presuppone «l’accesso a un set informativo non disponibile all’esterno dell’azienda e una visione diversa da quella soltanto storica (basata su analisi statiche di grandezze patrimoniali e indici di bilancio), bensì anche prospettica e quindi tesa a individuare l’incapacità in futuro di adempiere non solo le obbligazioni già assunte, ma anche quelle prevedibili nel corso della gestione attesa, sia sotto il profilo inerziale sia se corretta da iniziative della direzione» [ancora Quaderno 71, cit.]. L’attenzione e, dunque, l’azione dell’organo amministrativo deve assumere un’impronta prospettica e di programmazione, privilegiando business plan costituiti con rigore, in modo da rispondere ai principi di [continua ..]


4. La rilevazione tempestiva della crisi nella prospettiva penalistica: A) La necessaria comprensione e contestualizzazione degli indicatori della crisi

Chiarita l’importanza della visione prospettica per l’intercettazione tempestiva della crisi, è necessario non perdere di vista alcuni punti fermi, agevolmente desumibili dall’esperienza comune: (i) qualsiasi business plan è caratterizzato da intrinseca incertezza legata ai flussi futuri; (ii) la semplice attualizzazione dei flussi futuri non elide il rischio intrinseco connesso all’affidabilità delle informazioni acquisite, in relazione alla variabilità dei valori assunti; (iii) l’utilità del business plan è collegata al suo costante aggiornamento ed alla sua contestualizzazione rispetto all’andamento effettivo. Se ciò è vero, si evidenzia ancor di più l’importanza del requisito di proporzione-adeguatezza dell’assetto organizzativo adottato (art. 2086 c.c. e art. 13 c.c.i.) per comprendere e valutare sia il contesto operativo nel cui ambito viene elaborato il business plan, sia per selezionare (con adeguatezza e autoresponsabilità, art. 13, comma 2, c.c.i.) gli indici quali-quantitativi a cui fare affidamento per intercettare la crisi nel quadro della visione prospettica che ne caratterizza l’essenza. Inoltre, occorre considerare che gli «indicatori della crisi» non attestano ne­cessariamente la presenza di una crisi in atto, ma, per loro natura (in quanto “indizi”), richiamano l’attenzione su situazioni potenzialmente sintomatiche della stessa, imponendo all’osservatore di attivarsi per valutare e comprendere se realmente ci si trovi di fronte al manifestarsi di una “crisi” e, in caso affermativo, in quale fase di sviluppo essa si trovi. Si tratta, in sostanza, di sintomi potenziali (e non univoci) di una fase che può precedere l’insolvenza e che, come è stato evidenziato, è a sua volta caratterizzata da un divenire dinamico [Quaderno 71, cit.]. Significativo, al riguardo, è l’avvertimento del CNDEC: «qualsiasi indice, comunque costruito, comporta inevitabilmente un certo numero di falsi positivi, in assenza di uno stato di crisi che presenti la rilevanza di cui al comma 1 dell’art. 13, sia negativi, in termini di incapacità di intercettare uno stato di crisi rilevante» [Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2019, 18]; sicché fondarsi su un “semplice indicatore” in assenza di [continua ..]


5. B) Il criterio della prevedibilità

A fronte del palesarsi di un indicatore della crisi, diviene, dunque, indispensabile individuare i criteri per stimare il rischio che, in concreto, la stessa si manifesti. Dal punto di vista delle possibili responsabilità connesse ai doveri di reazione incombenti sugli amministratori e sugli organi di controllo, ciò significa verificare se, a fronte dell’esistenza di uno o più indicatori di crisi, costoro ne abbiano adeguatamente valutato e stimato il fondamento ovverosia, detto altri­menti, se abbiano adeguatamente soppesato il rischio di trovarsi di fronte ad una situazione suscettibile di sfociare in una crisi conclamata [cfr. lo definizione dell’evoluzione della crisi, Quaderno 71, cit.]. Il parametro di giudizio sotteso ad una simile valutazione è ancorato al criterio della prevedibilità in concreto, che consente di mettere a confronto il comportamento (e le decisioni) assunte nello specifico contesto di riferimento con quello che era lecito attendersi come corretto (e doveroso) in quel medesimo contesto. Su questi presupposti, si può ritenere che quando il rischio (ogni rischio, ivi compreso quello d’insolvenza) sia adeguatamente calcolato e stimato debba essere considerato (non solo connaturato con il fare impresa, ma anche) fisiologico e ragionevole e, comunque, non suscettibile (di per sé) di rilevanza penale. Esso diviene ingiustificato e, quindi, fonte di responsabilità quando viene affrontato in assenza di un’adeguata ponderazione degli elementi di giudizio a disposizione in quel dato momento. Il criterio della prevedibilità (in concreto) della crisi, il cui rischio è palesato dal manifestarsi degli indicatori contemplati dall’assetto organizzativo a tal fine adottato (art. 2086 c.c.), diviene, dunque, un parametro di giudizio fonda­mentale per valutare (anche e soprattutto in ottica penalistica) il comportamento degli organi societari in quel determinato contesto.


6. C) La ragionevolezza delle scelte compiute: la definizione del «rischio consentito»

Dal punto di vista operativo, paiono destinati ad assumere importanza esiziale gli elementi da cui trarre argomento per vagliare la ragionevolezza (in allora) dell’azione degli organi societari (ciascuno nell’ambito delle proprie, specifiche competenze gestorie o di controllo) con particolare riferimento: (i) alle scelte compiute per l’adozione dell’assetto organizzativo idoneo ad intercettare la crisi e alle valutazioni periodicamente compiute per saggiarne la perdurante rispondenza ai criteri di proporzione e adeguatezza; (ii) alla selezione (ex ante) degli indicatori della crisi in rapporto alla loro idoneità a segnalare lo stadio della crisi in atto; (iii) alla valutazione e contestualizzazione (ex post) degli indici della crisi; (iv) alle determinazioni conseguenti. A tal riguardo, dunque, paiono destinati ad assumere un ruolo centrale nella valutazione della responsabilità degli organi di governo societari: (i) gli elementi di giudizio, disponibili ed accessibili, nel momento storico di riferimento, per l’inquadramento della situazione oggetto d’indagine (a questo fine, il business plan assume un ruolo fondamentale per valutare l’importanza e l’impatto del­l’indice sull’andamento dell’impresa); (ii) le carte di lavoro; (iii) le indicazioni operative e comportamentali elaborate dal CNDEC e, più in generale, riconosciute a livello nazionale e internazionale. Sulla scorta di queste indicazioni, ricostruendo le ragioni sottese alle scelte ed alle valutazioni compiute dagli organi societari, si potranno comprendere (e giudicare) non solo le cause dell’insorgenza della crisi, ma anche la congruità (in termini di ragionevolezza) delle decisioni assunte per farvi fronte. Qualora l’esito di tali considerazioni conduca all’affermazione della ragionevolezza dell’azione degli organi di governo e di controllo, pare corretto ritenere che ci si trovi nell’ambito del c.d. «rischio consentito», al cospetto, cioè, di un rischio, che, essendo immanente (e ineliminabile) nel “fare impresa”, deve considerarsi al di sotto della soglia di rilevanza (penale) in quanto gestito ed affrontato secondo le regole comportamentali richieste dall’ordinamento, ivi comprese quelle di soft law di riferimento. Al contrario, ove tale congruenza non venga riscontrata, sarà verosimile [continua ..]


7. Segue. Il «rischio consentito» come elemento strutturale immanente del giudizio sull’operato degli organi societari nell’individua­zio­ne e gestione della crisi

Tentando fissare un primo, provvisorio, punto fermo all’esito delle riflessioni sin qui compiute, emerge come il criterio della prevedibilità (necessariamente definito in ottica prospettica alla luce delle informazioni disponibili nel momento a cui il giudizio si riferisce) rappresenti la “cifra costante” con cui ci si deve confrontare per valutare l’operato degli organi societari. Esso infatti rileva: (i) per valutare la bontà dell’assetto organizzativo elaborato ed adottato per intercettare e correggere i fattori che determinano l’insorgenza della crisi; (ii) per verificare se sia stata adeguatamente valutata la costante validità dell’assetto organizzativo (che necessariamente rientra nell’ambito degli obblighi di corretta amministrazione e controllo); (iii) per giudicare il comportamento degli organi societari al manifestarsi degli indicatori della crisi. Ciascuno di tali momenti di adempimento dell’obbligo di generale e costante monitoraggio/valutazione del rischio d’insolvenza imposto dal codice della crisi è suscettibile di essere verificato con la lente della prevedibilità della concretizzazione del rischio e della ragionevolezza dell’azione a tal riguardo posta in essere. Di talché, la necessità di procedimentalizzare la gestione del rischio-insolvenza imposta dal c.c.i., porta a ritenere che il «rischio consentito» (e, dunque, la congruenza dell’azione degli organi societari rispetto alle “indicazioni di sistema”, v. § 6) caratterizzi l’intero giudizio che dev’es­se­re compiuto in ordine a tutte le fasi attraverso cui si snoda l’attuazione di tale obbligo gestorio e di controllo. In particolare, per quanto riguarda l’organo amministrativo, tale canone di giudizio si rivelerà proficuo per valutare se il medesimo abbia adeguatamente adempiuto (tra gli altri) agli obblighi sanciti dagli artt. 13 e 14 Cc.c.i., con riferimento: (i) al monitoraggio della sostenibilità dei debiti per almeno sei mesi e delle prospettive di continuità aziendale (art. 13); (ii) alla valutazione dei «fondati indizi della crisi» segnalati dagli organi di controllo (art. 14); (iii) alle soluzioni individuate e alle iniziative intraprese per farvi fronte (art. 14); (iv) alla tempestività delle azioni assunte per l’avvio delle procedure di allerta e di [continua ..]


8. «Rischio consentito» e «teoria dei campanelli di allarme»: un binomio possibile e proficuo

La giurisprudenza che ha elaborato la teoria dei «campanelli d’allarme» (notoriamente impiegata per saggiare la responsabilità di amministratori privi delega e dei sindaci per la verificazione di eventi pregiudizievoli che avrebbero imposto loro di agire, nel rispetto delle rispettive incombenze) offre spunti interessanti per supportare l’importanza assunta dagli indicatori della crisi nel definire la responsabilità degli organi societari per i reati tuttora previsti dal c.c.i. A tal riguardo, infatti, si afferma che l’obbligo di agire (art. 40, cpv, c.p.) risulta attivato allorché risulti dimostrata la presenza di «segnali perspicui e peculiari di operazioni anomale, i quali siano suscettibili, come tali, di assumere la valenza di indizi gravi, precisi e concordanti della effettiva conoscenza, da parte sua, della probabile realizzazione di eventi pregiudizievoli, con conseguente obbligo di attivazione, nell’ambito delle sue attribuzioni, di tutte le possibili iniziative atte ad impedirla» (Cass. pen., sez. V, 7 marzo 2014, n. 32352). Ebbene: tenuto conto di quanto sin qui evidenziato, gli indicatori della crisi non sono in grado di assumere, per se stessi, la valenza di indizi gravi, precisi e concordanti. Essi debbono, necessariamente, essere contestualizzati e validati alla luce delle regole di comportamento di riferimento (v. §§ 6 e 7). Sicché, nuovamente, anche in questa prospettiva, pare assumere rilevanza decisiva il criterio della ragionevolezza dell’azione degli organi societari e, dunque, il criterio del «rischio consentito». A tal proposito, del resto, sovviene ancora l’insegnamento della Suprema Corte, secondo cui: «un conto è, dunque, che l’amministratore privo di delega rimanga indifferente dinanzi a un ‘‘segnale d’allarme’’ percepito come tale, in quanto decida di non tenere in considerazione alcuna l’interesse dei creditori o il destino stesso della società, ben altra cosa è che egli […] per colpevole – ma non dolosa – superficialità venga meno agli obblighi di controllo su di lui effettivamente gravanti» (Cass. pen., sez. V, 28 maggio 2013, n. 23000). Altrettanto interessante, ai nostri fini, è l’insegnamento della c.d. sentenza Thyssen, che ha tracciato un metodo operativo per distinguere il dolo eventuale [continua ..]


9. Una chiosa finale