Il saggio illustra la fattispecie di impresa del convivente e/o dei conviventi, avuto particolare riguardo alla disciplina applicabile. In tale prospettiva di analisi, l’autore – dopo approfondite considerazioni preliminari – si sofferma sulla società fra conviventi, illustrando il contratto di convivenza parasociale. Da ultimo, egli affronta la questione delle deroghe alla disciplina dei patti parasociali e l’opponibilità ai terzi dei contratti di convivenza.
The essay illustrates the type of business of the cohabitant and / or cohabitants, having particular regard to the legislative framework. In this perspective of analysis, the author – after in-depth preliminary considerations – focuses on the partnership between cohabitants, illustrating the shareholder cohabitation agreement. Lastly, he addresses the issue of exceptions to the discipline of shareholder agreements and the enforceability of cohabitation agreements against third parties.
Keywords: business – cohabitant – agreement
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1. Premessa - 2. L’impresa di uno dei conviventi - 3. L’impresa esercitata in comune fra i conviventi - 4. La società fra conviventi - 4.1. Segue. La disciplina applicabile - 5. Società fra conviventi e contratto di convivenza parasociale - 6. Le deroghe alla disciplina dei patti parasociali - 7. Contratti di convivenza parasociali e opponibilità ai terzi - NOTE
L’entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n. 76, come noto, ha arricchito il nostro sistema normativo di un set di norme sulla convivenza che, oltre a regolare profili di carattere strettamente personale, consta di alcune disposizioni di centrale importanza anche sotto il profilo patrimoniale. Fra queste, le norme che, direttamente o indirettamente, delineano uno statuto dell’impresa del convivente, e-o dei conviventi, sinora sconosciuto all’ordinamento giuridico italiano. Il riferimento è, innanzitutto, all’art. 230-ter c.c., la cui introduzione ha comportato la possibilità di configurare un’impresa familiare anche in presenza di rapporti di convivenza ed ha integrato, dunque, il microsistema normativo di cui all’art. 230-bis c.c. [1]. Ma un rilievo centrale è destinata ad assumere anche la disciplina del contratto di convivenza, la cui stipulazione, mediante opzione per il regime della comunione fra coniugi, può consentire ai conviventi l’esercizio in comune dell’impresa nelle forme di cui agli artt. 177 ss. c.c.; possibilità che, sino al 2016, era concessa unicamente ai soggetti coniugati [2]. Tali nuclei normativi, funzionali a consentire ai conviventi forme di collaborazione nell’esercizio dell’impresa sinora non praticabili, neppure mediante ricorso all’autonomia privata [3], conducono a interrogarsi circa gli spazi concessi dall’ordinamento a metodi alternativi di esercizio dell’impresa da parte di soggetti avvinti da un legame riconducibile all’art. 1, comma 36, legge n. 76/2016; primi fra tutti la conclusione di un contratto di società nell’ambito di un rapporto fra conviventi ed, eventualmente, a latere rispetto alla stipula di un contratto di convivenza.
In effetti, volendo classificare le ipotesi di esercizio dell’impresa da parte di uno dei – o di entrambi i – conviventi, sulla base dell’imputazione (della titolarità) dell’attività [4], si devono innanzitutto considerare i casi in cui titolare dell’impresa sia un convivente soltanto: colui il cui nome viene speso nei rapporti coi terzi e che, sotto il profilo giuridico, ha il potere di gestione [5]. In tali ipotesi, può ovviamente accadere che l’altro convivente sia assolutamente estraneo all’esercizio dell’attività e che non benefici neppure in minima parte dei frutti derivanti dalla stessa; così come può accadere che egli tragga, invece, vantaggio dagli utili prodotti dal convivente imprenditore [6], ma senza ingerirsi in alcun modo nell’esercizio dell’impresa, il cui statuto normativo non venga, dunque, minimamente influenzato dalla convivenza, ma rimanga quello che tipicamente caratterizza l’imprenditore individuale non convivente con alcun collaboratore; situazione, quest’ultima, che ricorre anche ove il convivente non imprenditore collabori all’impresa in forza di un contratto di lavoro subordinato: negozio la cui stipulazione, ai sensi dell’art. 230-ter c.c., esclude l’applicazione della normativa ivi prevista e non vale, dunque, a porre il convivente non imprenditore in una posizione diversa da quella che caratterizzerebbe qualunque altro terzo non convivente. Ove, per contro, il convivente non imprenditore presti stabilmente la propria attività all’interno dell’impresa, senza assumere la qualità di lavoratore subordinato [7], deve trovare applicazione lo statuto dell’impresa familiare del convivente: statuto destinato a intrecciarsi – secondo modalità, invero, non perspicue [8] – con il contenuto dell’eventuale contratto stipulato fra i conviventi. Al riguardo si può immaginare che costoro diano vita a un contratto di convivenza, il cui contenuto non interferisca con le norme in tema di gestione dell’impresa e di attribuzione degli utili derivanti dall’esercizio dell’attività: ipotesi in cui troverà applicazione, semplicemente, la normativa di cui all’art. 230-ter c.c. D’altra parte, si può ipotizzare che il contenuto del contratto di convivenza detti (anche) la [continua ..]
Diverse dalle fattispecie sino ad ora considerate le ipotesi in cui, invece, i due conviventi intendano esercitare l’attività di impresa in comune e ricorrere, di conseguenza, a forme organizzative tali per cui il soggetto il cui nome viene speso non sia uno solo di loro; sì che anche il potere di gestione non sia naturalmente concentrato in capo allo stesso ma spetti, di regola, ad entrambi, o sia comunque distribuito sulla base di criteri diversi da quelli sopra ricordati in tema di impresa individuale. Già in altra sede, in particolare [11], si è visto come i conviventi, al pari dei coniugi, possano esercitare un’impresa in comune nelle forme della comunione; il che accadrà ogni qual volta gli stessi abbiano stipulato un contratto di convivenza optando per tale regime patrimoniale e gestiscano l’impresa in una posizione di tendenziale parità, secondo le regole di cui agli artt. 177 ss. c.c. Può, però, ovviamente accadere che, anche alla luce delle rigidità notoriamente caratterizzanti il sistema di cui agli artt. 177 ss. c.c., i conviventi scelgano di concludere fra loro, espressamente o tacitamente, un contratto di società; essendo allora necessario individuare quale sia la normativa applicabile all’impresa comune, sia sotto il profilo patrimoniale, sia sotto il profilo gestionale, e ancora prima elaborare indici in grado di consentire, senza incertezze, l’individuazione della fattispecie.
Certo, nessun dubbio può sorgere ove i conviventi stipulino fra loro un contratto di società in forma scritta, e dunque mediante atto pubblico, scrittura privata autenticata o anche scrittura privata non autenticata. In tali ipotesi, infatti, essendo inequivoca la loro volontà di costituire una società, troverà inevitabilmente applicazione la disciplina del tipo sociale di riferimento; e ciò, anche nel caso in cui le parti diano vita a un contratto di convivenza non del tutto coerente con la normativa societaria applicabile. Più problematica la situazione che si determina qualora i conviventi diano avvio ad un’attività di impresa in comune senza specificare se intendano avvalersi della disciplina societaria o di quella della comunione di cui agli artt. 177 ss. c.c.; situazione in cui occorre distinguere a seconda che gli stessi abbiano stipulato o meno un contratto di convivenza. Ove un contratto di convivenza manchi, così come nel caso in cui sia presente, ma senza che le parti abbiano optato per il regime della comunione coniugale, i comportamenti posti in essere dalle parti dovranno essere letti, perlomeno tendenzialmente, quali indici della costituzione di una società di fatto, facta concludentia a cui assegnare la medesima valenza che dovrebbe essere loro attribuita in assenza del rapporto di convivenza. Ove, all’opposto, le parti del contratto di convivenza abbiano optato per il regime della comunione, si dovrà di regola ritenere di trovarsi dinanzi a una comunione d’impresa; e ciò, sempre che le regole concretamente seguite per l’esercizio dell’attività, in particolare in campo gestionale, non siano quelle di cui agli artt. 2257 ss. c.c.
In tutte le ipotesi in cui i conviventi abbiano costituito una società, la ricostruzione della normativa applicabile deve essere effettuata, fra l’altro, avendo riguardo: – agli adattamenti che la normativa legale può subire per effetto del fatto che i soci sono avvinti fra loro da un vincolo di convivenza, o comunque alle clausole statutarie che pare possibile stipulare in considerazione della presenza, all’interno della compagine sociale, di due conviventi, – alle interferenze fra il contratto costitutivo di società e l’eventuale contratto di convivenza stipulato inter partes. Quanto, in particolare, al primo profilo, un’indagine approfondita richiederebbe di individuare, per ciascun tipo sociale, la disciplina applicabile al rapporto fra soci conviventi, perlomeno dal punto di vista astratto [12]; una tale ricostruzione non potendo, evidentemente, essere effettuata, in maniera analitica, in questa sede. a) Certo, pare possibile chiarire sin d’ora che nessuna norma dettata in tema di società di persone o di società di capitali pare inapplicabile per il solo fatto che la compagine sociale in ipotesi, sia costituita da conviventi; e questo, tanto nel caso in cui tali soggetti siano gli unici soci dell’ente, quanto nel caso in cui la predetta compagine consti anche di soci terzi. b) La circostanza che due conviventi assumano la qualità di soci, o intendano, comunque, ricoprire ruoli diversi nell’ambito di una determinata società, può, piuttosto, condurre a chiedersi se siano applicabili, agli stessi, norme riferite a rapporti coniugali, o a rapporti di parentela. Si pensi, ad esempio, all’art. 2399 c.c., in tema di cause di ineleggibilità dei sindaci[13]; o all’art. 2417 c.c., che attraverso un richiamo allo stesso art. 2399 c.c. esclude la nomina a rappresentante comune degli obbligazionisti del coniuge degli amministratori della società emittente e delle società che la controllano, ne sono controllate o sono sottoposte a comune controllo. Pare preferibile la risposta negativa, trattandosi di disposizioni che derogano alla libertà negoziale delle parti e che, dunque, devono ritenersi di carattere eccezionale; fermo restando che l’assunzione dei predetti ruoli – quello di sindaco o di rappresentante comune degli obbligazionisti – potrebbe essere precluso al convivente ove lo [continua ..]
Quanto, d’altronde, ai profili di interferenza fra il contratto di società e il contratto di convivenza eventualmente stipulato fra le parti, pare di dover distinguere fra l’ipotesi in cui quest’ultimo contratto si limiti a disciplinare profili che, pur incidendo sui rapporti patrimoniali fra i paciscenti, non presentano alcuna connessione con il diritto societario e l’ipotesi in cui detto negozio, per contro, regolamenti aspetti inerenti al contratto di società. Ricorre la prima situazione, in particolare, allorché il contratto di convivenza disciplini la destinazione degli utili che ognuno dei contraenti ritrae dall’esercizio dell’attività comune; utili previamente attribuiti a ciascuno in esclusiva applicazione della normativa societaria. Ricorre, per contro, la seconda fattispecie nel caso in cui il contratto di convivenza determini, quanto al profilo patrimoniale, le modalità attraverso cui ciascuno dei conviventi effettua apporti all’attività comune, o può beneficiare delle utilità che dalla stessa vengono ritratte; quanto al profilo amministrativo, il modo in cui i conviventi intendono esercitare le prerogative attribuite loro dalla legge o dallo statuto, in primis il diritto di voto In quest’ultima ipotesi, non è chi non veda che detto contratto opera, rispetto all’organizzazione sociale, alla stregua di un vero e proprio patto parasociale, funzionale a stabilizzare gli assetti proprietari e/o il governo della società e, comunque, diretto a regolare [18] uno o più profili rientranti nell’ambito di applicazione degli artt. 2341-bis e 2341-ter c.c. [19]. Pare discenderne la necessità di applicare la relativa disciplina – o, per le società quotate, la disciplina di cui agli artt. 122-124 t.u.f. – perlomeno alle clausole che abbiano, effettivamente, valenza parasociale; salvi i dubbi, di seguito esposti, relativi alla normativa applicabile alle eventuali, ulteriori clausole che non presentino alcuna connessione con il diritto societario. Immaginando, in primis, un contratto di convivenza interamente volto a disciplinare il modo in cui i conviventi sono intenzionati a gestire le loro partecipazioni sociali, ci si deve domandare, innanzitutto, in che modo debbano trovare applicazione gli artt. 2341-bis c.c. e 123 t.u.f., nella parte in cui regolano la durata dei patti [continua ..]
Interessante, poi, il confronto fra la disciplina del contratto di convivenza e la normativa applicabile ai patti parasociali in forza di disposizioni diverse da quelle espressamente dedicate a tali patti. Varie, in particolare, le norme dettate per i contratti di convivenza che, di regola, non si applicano ai contratti parasociali; norme che, nella fattispecie considerata, e dunque in presenza di un “contratto di convivenza parasociale”, o avente almeno parzialmente natura parasociale, ci si deve, invece, chiedere se ed in quali limiti debbano trovare applicazione. Pur non potendosi, in questa sede, procedere ad una analitica disamina delle singole disposizioni de quibus, sembra di poter osservare che: – mentre di regola i patti parasociali sono soggetti al principio della libertà delle forme, il contratto di convivenza parasociale, in virtù dell’art. 1, comma 51, legge n. 76/2016 – al pari degli eventuali atti integrativi e/o modificativi e/o di mutuo dissenso – in questi termini, ad avviso di chi scrive, dovendosi interpretare le espressioni “le sue modifiche e la sua risoluzione”, di cui al citato comma 51 – deve essere stipulato per atto pubblico o scrittura privata autenticata; – mentre l’ordinamento, in linea di principio, per i patti parasociali non prevede alcun tipo di controllo volto a verificarne la legittimità, la stipula di un contratto di convivenza parasociale obbliga il notaio rogante o autenticante (ma, in caso di autentica demandata ad un avvocato, la conclusione vale anche per quest’ultimo) ad attestarne la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico; – mentre il contenuto dei patti parasociali è tendenzialmente rimesso alla libertà dei paciscenti, il contratto di convivenza deve sempre contenere, perlomeno stando al dettato normativo, le indicazioni richieste dal successivo art. 1, comma 53, circa l’indirizzo presso il quale ciascuna parte desidera che gli siano effettuate le comunicazioni relative al contratto stesso; ferma la possibilità che siano inserite nel regolamento negoziale anche le ulteriori indicazioni di cui allo stesso comma 53 [24]; – mentre, di regola, nulla vieta che un patto parasociale sia sottoposto a condizione, il contratto di convivenza, per espressa previsione di cui all’art. 1, comma 56, non può essere condizionato, dovendo [continua ..]
La norma più problematica da ricondurre a sistema, per l’ipotesi di contratti di convivenza parasociali, è rappresentata, tuttavia, dalla previsione dettata dall’art. 1, comma 52, per cui il professionista che ha ricevuto il contratto di convivenza e ne ha autenticato la sottoscrizione deve provvedere, nei successivi dieci giorni, a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe di cui agli artt. 5 e 7, d.P.R. n. 223/1989; e ciò, “Ai fini dell’opponibilità ai terzi”. È noto, infatti, come a tutt’oggi sia opinione largamente dominante che i patti parasociali abbiano efficacia meramente obbligatoria e non producano effetti sul piano reale, trattandosi di negozi certamente produttivi di effetti inter partes, ma inefficaci nei confronti dei terzi e, in particolare, della società e degli altri soci; principi che, evidentemente, ci si deve chiedere se siano destinati a trovare applicazione anche a patti parasociali stipulati nelle forme di contratti di convivenza iscritti al registro delle anagrafe e, per legge, opponibili ai terzi. Il quesito – invero, non di agevole soluzione – richiede di comprendere se l’opponibilità ai terzi, di cui all’art. 1, comma 52, costituisca un concetto assoluto o, piuttosto, un concetto relativo; se, in particolare, l’ordinamento, nel prevedere che un determinato atto sia opponibile ai terzi, debba necessariamente ricomprendere, in tale previsione, qualsivoglia effetto suscettibile di essere prodotto nei confronti di qualunque terzo, o possa, almeno in taluni casi, riferirsi solo a determinati effetti e-o a determinati terzi. Ipotesi, quest’ultima, che consentirebbe, perlomeno in astratto, di riferire l’opponibilità ai terzi menzionata dalla norma de qua unicamente agli effetti prodotti dalle previsioni contrattuali relative ai rapporti extra-societari, mantenendo fermi, quanto ai contenuti parasociali del contratto, gli approdi ermeneutici sopra sintetizzati; con il corollario che, ove il contratto di convivenza concretamente considerato avesse soltanto contenuti parasociali, non sarebbe possibile renderlo opponibile ai terzi neppure iscrivendolo alle anagrafe di cui agli artt. 5 e 7, d.P.R. n. 223/1989. Ferme le ambiguità e le incertezze sollevate dal dato normativo, è proprio quest’ultima la soluzione che appare più [continua ..]