L’intervento mira ad accertare la ricorrenza dei presupposti per l’esercizio di azioni di responsabilità degli organi societari, in ambito sia civilistico, sia penale. In tale prospettiva di analisi, gli autori descrivono le nozioni di perdita del capitale sociale e di stato di insolvenza, per poi soffermarsi sul modello di riferimento per l’esercizio di azioni di responsabilità.
The paper aims to ascertain the existence of the conditions for the exercise of liability actions of the corporate bodies, in both civil and criminal matters. In this perspective of analysis, the authors describe the notions of loss of legal capital and state of insolvency, and then focus on the reference model for the exercise of liability actions.
Keywords: liability actions – corporate bodies – insolvency
1. Premessa - 2. La verifica della (dis)omogeneità delle nozioni di perdita del capitale sociale e di stato di insolvenza - 2.2. I modelli predittivi - 2.2.1.2. La riclassificazione del bilancio - 2.2.1.3. Lo stato patrimoniale - 2.2.1.4. Il conto economico - 2.2.1.5. Il rendiconto finanziario - 2.2.1.6. Gli indicatori delle performance economico-aziendali per la verifica della manifestazione dello stato di insolvenza. Gli indici di bilancio - 2.3. I modelli evoluti - 2.3.1. I modelli qualitativi - 2.3.2. I modelli quantitativi - 2.3.2.1. Lo “Z-Score model” di Altman - 2.3.2.2. Lo “Z-Score model” – Versione Corretta per le PMI - 3. La responsabilità degli organi societari - 3.2. La disciplina penale - 4. Segue. La responsabilità degli organi societari - 4.2. L’orientamento della giurisprudenza di legittimità e il Codice della crisi - 4.3. La disciplina penale - 5. Le irregolarità di bilancio - 5.2. Le false comunicazioni sociali - 5.2.2. L’art. 2621 c.c. - 5.2.3. I nuovi artt. 2621-bis e 2621-ter c.c. - 5.2.4. L’art. 2622 c.c. - 6. La quantificazione del danno - 6.2. Il criterio presuntivo (o di default) - 6.3. Il criterio alternativo - 7. Il tentativo di costruire un modello di analisi unitario - 7.2. Simulazione - 7.2.2. Il danno derivante dalla prosecuzione dell’attività - 7.2.2.1. Il criterio presuntivo (o di default) - 7.2.2.2. Il criterio alternativo - 7.2.3. Le false comunicazioni sociali
Il curatore, quando si trova ad accertare la ricorrenza dei presupposti per l’esercizio di azioni di responsabilità, è spesso mosso dall’ambizione di ricercare un unico modello di riferimento; vorrebbe, cioè, individuare una metodologia che gli consenta di pervenire ad un unico risultato, utilizzabile in ambito sia civilistico sia penale. Scopo del presente lavoro è verificare se il perseguimento di tale obiettivo possa condurre alla prospettazione di una sorta di “Teoria del tutto”, attraverso la creazione di un ponte di collegamento fra le distinte discipline della responsabilità civilistica e penale; in ciò mutuando la ben più nota “Teoria del tutto” – elaborata nell’ambito della fisica teorica e identificata anche con l’acronimo TOE (Theory of everything) – che, ove dimostrata, sarebbe in grado di spiegare interamente tutti i fenomeni fisici conosciuti. È vero che alcuni scienziati affermano che i teoremi di incompletezza di Gödel dimostrano che un qualsiasi tentativo di costruire una teoria del tutto è destinato a fallire, ma è anche vero che tali teoremi valgono in campo matematico e non necessariamente in ambito giuridico. Vale quindi la pena di tentare.
2.1. Premessa Una prima questione che si impone all’operatore riguarda la verifica della coincidenza o meno delle situazioni di perdita del capitale sociale e di stato di insolvenza, che costituiscono – rispettivamente – i fondamentali presupposti per l’accertamento della ricorrenza delle ipotesi di responsabilità civilistica e penale, nei termini di cui si dirà più avanti. Purtroppo, nonostante – un po’ per semplicismo e un po’ per inerzia – le due situazioni vengano spesso fatte coincidere, si deve invece ritenere che la sovrapposizione non sia affatto scontata ed anzi si verifichi piuttosto di rado. Infatti, la perdita del capitale sociale – o, più correttamente, la riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale in conseguenza di perdite superiori ad un terzo – è un dato di carattere economico-patrimoniale, agevolmente accertabile attraverso l’esame del bilancio d’esercizio. Essa si verifica quando – per effetto delle perdite d’esercizio, che devono avere preventivamente eroso tutte le riserve – il capitale sociale risulti inciso per più di un terzo e si riduca, seppure solo virtualmente, al di sotto del minimo legale. Si tratta, quindi, di una situazione oggettiva e di agevole accertamento. Nella pratica professionale, la verifica viene condotta dopo avere apportato al bilancio d’esercizio le rettifiche necessarie per eliminare le conseguenze delle politiche di window dressing, in tal modo conferendo un margine di opinabilità al risultato raggiunto, che – tuttavia – per il resto rimane incontrovertibile. Costituisce, tuttavia, un errore – anche piuttosto grave – ritenere che la perdita del capitale sociale rappresenti un indice certo – o, peggio ancora, l’unico indice – di manifestazione dello stato di insolvenza. Se così fosse, infatti, si dovrebbe concludere che gran parte delle disposizioni dettate dal legislatore civilistico per disciplinare la liquidazione sarebbero inutili, giacché la liquidazione non potrebbe mai concludersi in bonis. Non bisogna, d’altronde, dimenticare che la principale causa di scioglimento delle società di capitali è costituita – per l’appunto – dalla perdita del capitale sociale. Né, d’altro canto, si deve ritenere che lo stato di insolvenza presupponga [continua ..]
2.2.1. I metodi tradizionali: le analisi di bilancio 2.2.1.1. Il Documento del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti “Crisi d’impresa. Strumenti per l’individuazione di una procedura d’allerta” (gennaio 2005). Premessa Per la verifica della manifestazione dello stato di insolvenza occorre prendere le mosse dai dati di bilancio, rielaborati al fine di ottenere uno stato patrimoniale non tanto basato sul costo storico, quanto su criteri valutativi di mercato, e preferibilmente – in conformità alla prassi internazionale – sul fair value. La rielaborazione dei dati implica e comporta una riclassificazione del bilancio (stato patrimoniale e conto economico) basata su modelli predefiniti (ad esempio, quello della centrale dei bilanci), tali da fornire una lettura gestionale dei prospetti contabili e – quindi – in grado di evidenziare la situazione finanziaria (stato patrimoniale), la destinazione e l’andamento divisionale delle performance (conto economico). Dopo tale fase, occorre prevedere un insieme di indicatori di bilancio ed extra-contabili ritenuti particolarmente significativi per esprimere un giudizio sullo stato di salute dell’impresa. Anzitutto, dovrebbero essere considerati gli indici di solvibilità (ad esempio, gli indici di indipendenza finanziaria e di solidità del capitale sociale) e di liquidità (ad esempio, la composizione degli investimenti e dei finanziamenti), al fine di capire quale possa essere la situazione finanziaria in cui versa l’impresa. In particolare, tra gli indici finanziari, dovrebbero essere considerati taluni parametri legati al tempo, da ritenersi particolarmente significativi ai fini dell’individuazione dello stato di insolvenza; esempi di tali indici potrebbero essere i tempi di incasso e di pagamento, che consentono di mettere in evidenza eccessive dilazioni di pagamento da parte dei clienti o condizioni particolarmente sfavorevoli di pagamento per i fornitori. Dovrebbero, inoltre, essere elaborati altri indici di natura economica, quali la rotazione del magazzino o altri indici extra-bilancio, quali la rotazione del personale. Dovrebbero, infine, essere presi in considerazione gli elementi extracontabili: con elementi extra-contabili si fa normalmente riferimento ad aspetti relativi al personale (grado di know how in possesso dei dipendenti, grado di affidabilità e lealtà del [continua ..]
Normalmente i valori contabili delle voci di bilancio rappresentano la mera applicazione di regole contabili e seguono convenzioni e prassi ragionieristiche che, anche se applicate correttamente, forniscono una visione approssimativa della reale situazione aziendale. In particolare, si osserva – soprattutto a livello internazionale – che il bilancio non è sempre in grado di offrire un’informativa tale da soddisfare le esigenze conoscitive di gran parte degli stakeholder e che – per poter raggiungere tale obiettivo – è opportuno predisporre nuovi e specifici documenti, volti a garantire un’informazione orientata al soddisfacimento di specifici interessi. Partendo dall’analisi delle più evolute tendenze internazionali in materia di valutazione ed esposizione delle poste, occorre quindi rivedere e correggere i dati quantitativi risultanti dall’applicazione delle regole codicistiche e dei principi contabili nazionali, in modo da predisporre uno schema di bilancio riclassificato atto a rappresentare il più fedelmente possibile le effettive potenzialità che l’impresa può esprimere e – per quanto di interesse – se l’impresa si trovi in stato di insolvenza. Il punto di partenza dell’analisi consiste, quindi, nella rielaborazione degli schemi di bilancio: quantomeno, lo stato patrimoniale e il conto economico. Il bilancio rappresenta, infatti, per l’impresa il documento più significativo per la comunicazione finanziaria del proprio “stato di salute”. Tale sistema di valori, articolato prevalentemente sulla valutazione al costo storico si è – tuttavia – dimostrato, spesso, non in grado di rivelare il “reale” valore dei beni, tanto che la prassi internazionale appare sempre più indirizzata a sostituire l’historical cost model con il market value model, ritenuto capace di fornire un’informativa più appropriata. In particolare, tra i criteri valutativi ha assunto un ruolo via via più rilevante – nel corso degli ultimi anni – il fair value. Questo, d’altra parte, non costituisce un criterio puramente “dottrinale” neanche a livello nazionale; infatti, il legislatore comunitario – con l’emanazione del regolamento CE n. 1606/2002, relativo all’applicazione dei principi contabili internazionali – ha [continua ..]
Come si è detto, il criterio ritenuto preferibile per la valutazione (di almeno alcune) delle poste di bilancio è il fair value, inteso come «il corrispettivo al quale un’attività può essere scambiata, o una passività estinta, in una libera transazione fra parti consapevoli e disponibili». Ciò significa che nella valutazione dei beni devono essere considerate le condizioni di mercato, sul presupposto che le transazioni siano scevre da distorsioni connesse a specifici rapporti di forza o di debolezza tra i contraenti – quali, ad esempio, transazioni commerciali tra società appartenenti al medesimo gruppo – ovvero dovute a situazioni patologiche d’impresa – quali, ad esempio, esigenze di liquidità –. La valutazione dei beni al fair value risulta – quindi – particolarmente utile, in quanto mette in evidenza un eventuale stato di insolvenza dell’impresa. Tuttavia, come si è detto, per avere un’informativa sufficientemente attendibile devono essere utilizzati anche altri criteri valutativi – quali, tra gli altri, quello del costo – ritenuti in grado di evidenziare con maggiore approssimazione – almeno in alcuni casi – il corretto valore del patrimonio aziendale.
Con riferimento al conto economico, si raccomanda di seguire la medesima impostazione proposta dal codice civile, in base alla quale le voci sono ripartite in relazione alla natura delle stesse. Si rende peraltro necessaria la valutazione dei beni esposti in bilancio a valori effettivi, affinché i dati risultanti dal Conto Economico e dallo Stato Patrimoniale offrano un utile strumento di sintesi per valutare l’eventuale presenza dello stato di insolvenza. La principale differenza che emerge dall’implementazione dei criteri basati sui valori di mercato – ed in particolare sul fair value – consiste nel fatto che, non essendo quello del costo il criterio valutativo prevalente, l’ammortamento perde di significato. In luogo dei termini “ammortamento”, “svalutazione” e “rivalutazione”, compaiono, quindi, voci di “rettifica” dei valori economici iscritti in bilancio, tese ad individuare la stima del reale valore degli elementi dell’attivo e del passivo di bilancio.
Nell’ambito dell’informazione di bilancio, il rendiconto finanziario assume un ruolo di primaria importanza, in quanto fornisce indicazioni di carattere – per l’appunto – finanziario, utili per comprendere lo stato di salute dell’impresa soprattutto in chiave prospettica. Più in particolare, le informazioni contenute nel rendiconto finanziario non sono destinate ad illustrare la situazione dell’impresa in un determinato momento, bensì espongono le variazioni intervenute tra l’inizio e la fine dell’esercizio e – tenuto conto della loro dinamica nel tempo – offrono utili informazioni di natura predittiva. In altri termini, mentre le informazioni contenute nello stato patrimoniale hanno natura essenzialmente statica, essendo costituite da saldi contabili di fine esercizio, il rendiconto finanziario offre informazioni di carattere dinamico, esponendo – in termini di flussi – le variazioni intervenute nella situazione finanziaria d’impresa. In tal senso, il rendiconto finanziario rappresentata i flussi finanziari che si sono manifestati nel periodo di tempo intercorrente tra due esercizi consecutivi, fornendo informazioni utili per accertare la capacità dell’impresa di produrre disponibilità liquide o mezzi equivalenti nella prospettiva del loro impiego.
La riclassificazione del bilancio al fair value costituisce e fornisce già di per sé una visione “reale” della situazione aziendale. Ciò nonostante, per l’individuazione dello stato di insolvenza è opportuno elaborare alcuni parametri ed indici, funzionali ad una immediata rilevazione dei rischi di sostenibilità economica, patrimoniale e finanziaria, che l’impresa potrebbe correre nell’immediato futuro. Tali indici devono essere calcolati direttamente sui dati riclassificati e non sui dati contabili iscritti nel bilancio “civilistico”, al fine di sfruttare al meglio le potenzialità del sistema così rielaborato. Il sistema degli indici risulta tanto più rilevante quanto più la sua applicazione è costante nel tempo. Infatti, la comparazione sistematica e periodica, può evidenziare trend economici e finanziari, fondamentali per la comprensione dello stato di salute dell’impresa. La valutazione della performance aziendale tende, infatti, ad essere fondata sempre più sulla variazione subita dal valore degli indicatori aziendali in un determinato periodo di tempo, piuttosto che sull’analisi dei risultati di bilancio. In tal senso, l’analisi del bilancio per indici consente una lettura – o meglio – un’interpretazione dei dati contenuti nel bilancio dell’impresa, finalizzata a cogliere le performance economico-aziendali della stessa, cosicché possa essere agevolmente accertata correttamente il momento preciso di manifestazione dello stato di insolvenza. In particolare, la manifestazione dello stato di insolvenza può essere accertata attraverso l’analisi di tre equazioni di base: • Equazione patrimoniale; • Equazione monetaria; • Equazione economica. Equazione patrimoniale Lo squilibrio patrimoniale può essere rilevato, fondamentalmente, con l’ausilio delle seguenti categorie di indici: • indici di durata; • indici di solidità patrimoniale; • indici di indebitamento. Equazione [continua ..]
Tali modelli possono essere suddivisi in due macro-categorie: modelli qualitativi e modelli quantitativi.
I modelli qualitativi si basano sul presupposto che un’analisi fondata meramente su dati numerici – e, in particolare, su indici di bilancio – limiti fortemente il giudizio di merito sullo stato di salute dell’impresa. Il modello qualitativo maggiormente diffuso ed apprezzato è l’“A-Score model”, elaborato da J. Argenti nel 1976, che si basa sulla seguente logica: le debolezze del management e le carenze a livello di sistema contabile (prima variabile) sono causa di errori (seconda variabile), che conducono ai sintomi del fallimento (terza variabile). Attribuendo un punteggio ad ogni singolo elemento componente le tre variabili indicate, è possibile ottenere un indice (“A-Score”), che – se inferiore a 25 – denota un’elevata probabilità di insolvenza. La validità predittiva di tale modello, tuttavia, non è mai stata testata in modo scientifico ed è opinione condivisa che lo stesso pecchi di un’eccessiva “soggettività” nell’attribuzione dei punteggi.
I modelli quantitativi sono basati su alcuni indici di bilancio e, a loro volta, possono essere suddivisi, in modelli “teorici” e modelli “empirici”. La prima categoria non è mai stata utilizzata nella prassi, in quanto riguarda imprese “ideali” e persegue una logica astratta e troppo semplicistica, secondo la quale un valore di liquidazione inferiore alle passività conduce inevitabilmente al default. I modelli empirici, invece, utilizzano un approccio induttivo e statistico, testato su un campione di imprese significativo per trarre regole di valenza generale. I tentativi di elaborazione di modelli empirici sono stati molteplici: Beavel nel 1966, Altman nel 1968, Taffler e Tishaw nel 1977, Ezzamel, Brodie e Mar-Molinero nel 1987. Degno di menzione è anche il cd. “Modello di Alberici”, che – per primo – ha applicato tale approccio ad un campione di imprese italiane.
Nel 1968 Edward I. Altman (economista e professore alla New York University’s Stern School of Business) sviluppò un modello previsionale noto come test Z-Score. Questo modello permette di prevedere, con tecniche statistiche, la probabilità di fallimento di un’impresa negli anni successivi. Il test fu sviluppato analizzando i dati di bilancio di 66 società industriali quotate, metà delle quali in default e si dimostrò in grado di “prevedere” lo stato di default con un elevato grado di accuratezza. Il principale punto di forza del modello riguarda la semplicità d’uso: è sufficiente, infatti, risolvere un’equazione di primo grado ed ottenere un valore (lo “Z-Score”, appunto) da comparare con altri parametri (cd. parametri di cut off) per determinare se l’impresa possa essere collocata nell’area di “presumibile insolvenza”, nell’area di “potenziale solvibilità” o nella cd. “zona grigia” (grey area), in relazione alla quale non è possibile esprimere un giudizio definitivo, ma la cui appartenenza denota uno stato di salute economico-finanziaria precario. Tutti i dati necessari per il calcolo dello “Z-Score” possono essere desunti dal bilancio d’esercizio. Il modello Z-Score, come la maggior parte dei modelli classificatori nell’ambito della diagnosi precoce del rischio di insolvenza, si basa sull’analisi statistica discriminante. Tale tecnica permette di classificare con il minimo errore un insieme di unità statistiche in due o più gruppi individuati a priori (imprese fallite e imprese non fallite), sulla base di un insieme di caratteristiche. Con l’analisi discriminante sono identificate alcune variabili indipendenti (normalmente indici di bilancio) alle quali, con elaborazioni statistiche, si attribuiscono “pesi” che consentono di ottenere un risultato espressivo della capacità dell’impresa di perdurare nel tempo. I risultati forniti dall’applicazione dello Z-Score si sono dimostrati molto accurati negli anni passati ed hanno permesso, con un elevato grado di affidabilità, di determinare la possibilità di fallimento di molte imprese. La funzione discriminante elaborata da Altman per lo Z-Score classifica le variabili in cinque indici di bilancio relativi all’analisi della [continua ..]
La dottrina, soprattutto italiana, si è interrogata sull’applicabilità della formula Z-Score di Altman anche ad imprese non quotate sui mercati regolamentati. Tenuto conto della risposta negativa a tale interrogativo, studi successivi hanno rivisitato il modello Z-Score al fine di renderlo applicabile alle piccole e medie imprese (PMI) italiane, procedendo alla definizione di nuovi pesi. Particolare rilevanza assume, in tale contesto, uno studio pubblicato nel 2004, in cui le variabili discriminanti impiegate sono quelle individuate da Altman, modificate per la realtà economica delle PMI appartenenti al settore manifatturiero. Le variabili assunte a riferimento sono le seguenti: X1 = (AC-PC) / (AM+AI+RF+AC+DL) X2 = (RL+RS) / TA X3 = UON / (AM+AI+RF+AC) X4 = PN / TP X5 = RV / (AM+AI+RF+AC+DL) Dove: AG = Attività correnti PG = Passività correnti AM = Immobilizzazioni materiali AI = Immobilizzazioni immateriali RF = Rimanenze finali DL = Disponibilità liquide RL = Riserva legale RS = Riserva straordinaria TA = Totale attività UON = Utile Operativo Netto PN = Patrimonio netto TP = Totale passività RV = Ricavi di vendita In particolare: X1: esprime il valore delle attività liquide dell’impresa rispetto alla capitalizzazione totale. Risulta evidente che un’impresa che va incontro a perdite operative consistenti avrà una forte riduzione delle attività correnti in relazione al totale delle attività. Tale indice si è dimostrato il migliore fra gli indici della liquidità testati, tra cui il current ratio ed il quick ratio; X2: esprime la capacità che un’impresa ha avuto di reinvestire i propri utili. Un’impresa giovane avrà certamente un indice minore rispetto ad un’impresa di più antica costituzione; questo perché l’impresa giovane non ha avuto ancora il tempo di costituire riserve, e pertanto può risultare penalizzata nella valutazione del rischio di fallimento. Ciò rappresenta proprio la situazione reale nella quale le imprese neo-costituite hanno una probabilità di fallimento maggiore nei primi anni della loro vita; X3: misura la produttività delle attività di un’impresa, depurate da qualsiasi fattore di leva finanziaria o fiscale. Per tale motivo detto indice risulta particolarmente appropriato nella definizione della [continua ..]
3.1. La disciplina civilistica della responsabilità derivante da fatti autonomamente considerati 3.1.1. Premessa Dopo avere individuato la data cui far retroagire la perdita del capitale sociale e la data di manifestazione dello stato di insolvenza, occorre – in primo luogo – verificare se siano state poste in essere operazioni pregiudizievoli, dalle quali possano scaturire ipotesi di responsabilità in capo agli organi societari, prima sul piano civilistico e poi su quello penale. Come è noto, la responsabilità degli amministratori di società per azioni ha subito con la riforma societaria un sensibile maquillage normativo. In particolare, dal confronto fra le diverse versioni ante e post riforma (delle società di capitali) emergono tre importanti novità: • una diversa specificazione del grado di diligenza esigibile dagli amministratori, con l’abbandono del riferimento alla diligenza del mandatario e l’assunzione di quella «richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze»; • la delimitazione della cd. responsabilità in vigilando, con la sostituzione dell’obbligo di vigilare sull’andamento della gestione con quello di informazione di cui all’art. 2381, comma 3, c.c.; • la ridefinizione della responsabilità per gli atti compiuti in esecuzione di funzioni proprie degli amministratori delegati. Particolare attenzione merita la prima di queste innovazioni, dove appare evidente come il legislatore abbia fatto riferimento – nell’individuare il parametro di responsabilità – non più all’art. 1176, comma 1, c.c., bensì al comma 2 di tale norma. Ne deriva che, alla stregua di tale scelta, la diligenza deve essere valutata con riguardo alla natura dell’attività esercitata e – quindi – si deve tenere conto, nel “misurare” la diligenza dell’operato degli amministratori: • della eventuale complessità dell’incarico; • delle particolari conoscenze richieste; • dei mezzi e delle risorse disponibili per lo svolgimento dell’incarico medesimo. In questo quadro si tende a escludere che la mancanza di perizia sia sinonimo di mancanza di diligenza, dovendosi piuttosto ritenere che – ai sensi dell’art. 2381, ultimo comma, c.c. – vi sia a carico degli amministratori un [continua ..]
Dal punto di vista penale il compimento di atti pregiudizievoli può integrare l’ipotesi di cui al comb. disp. degli artt. 216, comma 1, n. 1, e 223, comma 1, l.f., in termini di bancarotta distrattiva o dissipativa. In particolare, la distrazione consiste in ogni atto, diverso dalla dissipazione e dall’occultamento, mediante il quale l’imprenditore fa uscire dal proprio patrimonio, senza contropartita, o senza contropartita reperibile, o fa uscire – comunque – dal patrimonio assoggettabile in concreto a procedura esecutiva, una parte dei propri beni, allorché questo aggravi lo stato di insolvenza; la dissipazione consiste, invece, nella distruzione giuridica della ricchezza, potendosi identificare con lo sperpero ingiustificato attuato mediante atti a titolo gratuito, a titolo oneroso – ma a prezzo vile – o atti di adempimento di obbligazioni naturali. Alternativamente, può integrare l’ipotesi di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, l.f., nel caso in cui il fallimento sia stato cagionato per effetto di operazioni dolose.
4.1. La disciplina civilistica della violazione del divieto di compiere operazioni non conservative Le disposizioni che vengono più frequentemente invocate nella prassi, con riguardo alla responsabilità degli amministratori, attengano agli artt. 2485 ss. c.c. Queste stabiliscono che, verificatasi una causa di scioglimento, gli amministratori – senza indugio – devono iscriverla nel registro delle imprese, con il conseguente obbligo di limitare la gestione alla conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale. Tale fattispecie è, di regola, strettamente connessa con le norme che presiedono alla redazione del bilancio, sostanziandosi – spesso – in appostazioni non veritiere, allo scopo di occultare la perdita del capitale e quindi la manifestazione della causa di scioglimento. Più in particolare merita sottolineare come – in seguito alla riforma del 2003 – la violazione imputata agli amministratori non è più il compimento di nuove operazioni, ma il ritardo o l’omissione di accertare senza indugio il verificarsi della causa di scioglimento e della sua conseguente iscrizione al registro imprese. Dove, peraltro, sul piano delle conseguenze la situazione non è molto diversa dal passato, dovendo rispondere gli amministratori per non aver limitato la loro gestione alla conservazione del patrimonio, con conseguente risarcimento dei danni per le operazioni non finalizzate alla più efficace liquidazione della società. Premesso che qualsivoglia azione di responsabilità presuppone la sussistenza di un danno eziologicamente riferibile al comportamento degli amministratori, dove nesso causale e onere probatorio si atteggiano diversamente a seconda del tipo di azione: nell’azione ex art. 2392 c.c. basta dimostrare l’esistenza del danno, incombendo sugli amministratori la prova dell’insussistenza del nesso di causalità; nel caso dell’art. 2394 c.c. l’onere della prova è tutto a carico dei creditori sociali, ovvero – in caso di fallimento – della procedura. In tale contesto, è necessario precisare quale sia il danno risarcibile conseguente al comportamento negligente degli amministratori. In particolare, posto che in linea generale vale la regola che il criterio deve essere quello di commisurare il danno al pregiudizio arrecato da ogni singola operazione [continua ..]
Fermo restando che l’esercizio di un’eventuale azione di responsabilità presuppone – come si è detto – che venga fornita idonea prova della retrodatazione della riduzione del capitale al di sotto del minimo legale (art. 2484, comma 1, n. 4, c.c.), ci si deve interrogare su quali criteri – una volta fornita tale dimostrazione – possano essere adottati. Al proposito, occorre subito rilevare che il noto criterio del “differenziale tra patrimoni netti” – che prevede la quantificazione del danno risarcibile in misura pari alla differenza tra il patrimonio netto della società al momento dell’effettivo verificarsi della causa di scioglimento e il patrimonio netto della società al momento della sua formale messa in liquidazione – poteva essere utilizzato soltanto in casi particolari, così come sancito dalla giurisprudenza di legittimità: • «Per liquidare il danno derivante da una gestione della società condotta in spregio dell’obbligo di cui all’art. 2449 c.c. (vecchio testo), ovvero dell’attuale art. 2486 c.c., il giudice può ricorrere in via equitativa, nel caso di impossibilità di una ricostruzione analitica dovuta all’incompletezza dei dati contabili ovvero alla notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento, al criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali. La condizione è che tale ricorso sia congruente con le circostanze del caso concreto, e che quindi sia stato dall’attore allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato e siano state specificate le ragioni impeditive di un rigoroso distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta» (Cass. 20 aprile 2017, n. 9983); • «la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto ammissibile la liquidazione del danno in questione in via equitativa [...] sia nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare – qualora il ricorso a tale parametro si palesi, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile, purché l’attore abbia allegato inadempimenti dell’amministratore astrattamente idonei a porsi quali cause del danno lamentato, indicando [continua ..]
Dal punto di vista penale il ritardo nella presentazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento in proprio può integrare l’ipotesi di cui al comb. disp. degli artt. 217, comma 1, n. 4, e 224, comma 1, n. 2, l.f.
5.1. La disciplina civilistica. Le conseguenze derivanti dalla predisposizione di un bilancio che presenta vizi sostanziali A ridosso del fallimento, ma spesso anche molto tempo prima, gli amministratori tendono ad effettuare operazioni di maquillage del bilancio, soprattutto al fine di occultare la perdita del capitale sociale. Il bilancio d’esercizio può – dunque – presentare irregolarità che riguardano il suo contenuto. Le conseguenze civilistiche della violazione dei princìpi di chiarezza, verità e correttezza non sono – tuttavia – univoche; tende comunque a prevalere, in dottrina e soprattutto in giurisprudenza, la tesi più rigorosa della nullità della delibera di approvazione del bilancio che presenti una violazione dei principi di chiarezza, verità e correttezza. Si ritiene, infatti, che la delibera di approvazione di un bilancio non chiaro, veritiero e corretto abbia oggetto (contenuto) illecito, in quanto adottata in contrasto con norme imperative inderogabili dettate a tutela di un interesse generale. Tuttavia, si ritiene che la violazione dei principi generali possa condurre alla nullità della delibera solo quando i vizi siano tali da compromettere effettivamente la funzione informativa del bilancio, con reale pregiudizio per i soci e per i terzi. Non si avrebbe per contro nullità della delibera, quando i vizi sono marginali e non compromettono la precisa rappresentazione della situazione patrimoniale e del risultato economico di esercizio. Come è noto, significative limitazioni all’impugnativa dei bilanci sono state introdotte, dapprima per i soli bilanci delle società sottoposte a revisione contabile obbligatoria con l’art. 6 d.P.R. 31 marzo 1975, n. 136 (ora art. 157 t.u.f.), ed estese a tutte le società per azioni con la riforma del 2003 che ha introdotto una speciale disciplina (art. 2434-bis) volta a dare certezza e stabilità alla delibera di approvazione del bilancio. Quanto ai rimedi successivi, l’art. 2434-bis c.c. prevede che: «Le azioni previste dagli articoli 2377 e 2379 non possono essere proposte nei confronti delle deliberazioni di approvazione del bilancio dopo che è avvenuta l’approvazione del bilancio dell’esercizio successivo […] La legittimazione ad impugnare la deliberazione di approvazione del bilancio su cui il soggetto incaricato di effettuare [continua ..]
5.2.1. Premessa Come è noto, con l’entrata in vigore della legge 27 maggio 2015, n. 69, è stata modificata la disciplina del reato di false comunicazioni sociali. La previgente normativa del codice civile distingueva tra la fattispecie base di natura contravvenzionale di cui all’art. 2621 c.c. “False comunicazioni sociali” (costruita come reato di pericolo) e quella di natura delittuosa di cui al successivo art. 2622 c.c., che sanzionava il danno effettivo subito dalla società, dai soci o dai creditori in conseguenza del falso in bilancio. In entrambi i casi di falso in bilancio la punibilità era esclusa: • nel caso in cui le falsità o omissioni delle scritture contabili della società non alterassero sensibilmente la situazione economica, finanziaria o patrimoniale della società o del gruppo societario; • nel caso in cui portassero ad una variazione del risultato di esercizio non superiore al 5%, oppure una variazione del patrimonio societario non superiore all’1%. Nel solo caso di falso in bilancio di cui all’art. 2622 c.c., la punibilità era comunque esclusa ove le stime successive alla dichiarazione differissero meno del 10% rispetto alla stima corretta. Rispetto alla disciplina previgente, la riforma distingue tra falso in bilancio di società non quotate e falso in bilancio di società quotate, sanzionando entrambe le fattispecie come delitto. Viene prevista inoltre, per le società non quotate, una ipotesi attenuata del reato, nonché uno specifico caso di non punibilità per lieve entità dell’illecito. La categoria delle società quotate è individuabile all’interno della più generale categoria delle cd. “società aperte”, ovvero di quelle società che fanno appello al pubblico risparmio mediante il ricorso al capitale di rischio, dunque emettendo azioni diffuse tra il pubblico in maniera rilevante. Le società quotate si identificano per il fatto di avere emesso strumenti finanziari ammessi alla negoziazione. Vi sono – dall’altra parte – società che non fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio, dette società “chiuse”, solitamente formate da un ristretto numero di soci.
Il nuovo art. 2621 c.c. – la cui rubrica è rimasta inalterata – prevede che le false comunicazioni sociali, prima sanzionate come contravvenzione, tornino ad essere un delitto, punito con la pena della reclusione da 1 a 5 anni. In particolare, il previgente art. 2621, comma 1, c.c., puniva con l’arresto fino a due anni «gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, esponessero fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni ovvero omettono informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione». La punibilità era estesa, al comma 2 del medesimo articolo, anche al caso in cui le informazioni riguardassero beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi. La punibilità era invece esclusa, ai sensi del comma 3, se le falsità o le omissioni non alteravano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilità era comunque esclusa se le falsità o le omissioni determinavano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5 per cento o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1 per cento. In ogni caso, il fatto non era punibile, ai sensi del comma 4, se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differivano in misura non superiore al 10 per cento da quella corretta. L’art. 9 della legge 27 maggio 2015, n. 69, modifica l’art. 2621 c.c., prevedendo che i medesimi soggetti di cui alla previgente normativa, i quali «consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la [continua ..]
La riforma ha, altresì, introdotto nel codice civile due ulteriori disposizioni dopo l’art. 2621 c.c.: gli artt. 2621-bis (“Fatti di lieve entità”) e 2621-ter (“Non punibilità per particolare tenuità”). L’articolo 2621-bis c.c. disciplina l’ipotesi che il falso in bilancio di cui all’art. 2621 c.c. sia costituito da fatti “di lieve entità”, salvo che costituiscano più grave reato. Tale fattispecie, punita con la reclusione da sei mesi a tre anni (fatta salva la non punibilità per particolare tenuità del fatto: v. infra, nuovo art. 2621-ter c.c.) viene qualificata dal giudice tenendo conto: • della natura e delle dimensioni della società; • delle modalità o degli effetti della condotta. Analoga sanzione si applica – in base al comma 2 del nuovo articolo 2621-bis – anche nel caso in cui le falsità o le omissioni riguardano società che non superano i limiti indicati dal secondo comma dell’art. 1 della legge fallimentare. Si tratta, quindi, delle società che, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, dimostrino il possesso congiunto dei tre seguenti requisiti: • un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; • ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; • un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila. In tal caso, il delitto è procedibile a querela della società, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari della comunicazione sociale. La sanzione ridotta, prevista dal secondo comma dell’articolo in esame per le specifiche tipologie di società più piccole, costituisce una presunzione assoluta, introdotta direttamente dalla legge, circa la sussistenza del fatto di lieve entità e l’applicabilità della relativa sanzione. Le condotte che interessano società di dimensioni maggiori rispetto a quelle indicate nel secondo comma possono comunque rilevare ai fini della lieve entità in base ad una valutazione del caso concreto, operata dal giudice in applicazione del primo comma, in cui – come si è detto – debbono comunque essere valutate anche le dimensioni [continua ..]
La disciplina di riforma ha modificato anche l’art. 2622 c.c., precedentemente relativo alla “fattispecie di false comunicazioni sociali in danno della società, dei soci o dei creditori”. Tale ipotesi viene sostituita dal delitto di “false comunicazioni sociali delle società quotate” – individuate dal nuovo art. 2622, comma 1, c.c., come le società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese della UE –, sanzionato con la pena della reclusione da tre a otto anni. Il previgente art. 2622 c.c. puniva a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a tre anni, «gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, esponessero fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni, ovvero omettessero informazioni la cui comunicazione era imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione, cagionano un danno patrimoniale alla società, ai soci o ai creditori». Inoltre, si procedeva a querela anche se il fatto integrava altro delitto, ancorché aggravato, a danno del patrimonio di soggetti diversi dai soci e dai creditori, salvo che fosse commesso in danno dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee (comma 2). Nel caso di società con azioni quotate, la pena per i fatti previsti al primo comma era la reclusione da uno a quattro anni e il delitto era procedibile d’ufficio (comma 3). La pena era da due a sei anni se, nelle ipotesi di cui al terzo comma, il fatto cagionava un grave nocumento ai risparmiatori (comma 4). Il nocumento si considerava grave quando aveva riguardato un numero di risparmiatori superiore allo 0,1 per mille della popolazione risultante dall’ultimo censimento ISTAT ovvero se consisteva nella distruzione o riduzione del valore di titoli di entità complessiva superiore allo 0,1 per mille del prodotto [continua ..]
6.1. Premessa Come si è già riferito, il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, con l’art. 378, comma 2, ha aggiunto – all’art. 2486 c.c., dopo il comma 2 – quanto segue: «Quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura, e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell’irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura». Il nuovo art. 2486, comma 3, c.c. individua quindi due criteri alternativi: • un criterio presuntivo, per così dire di default, sulla base del quale il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura, e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione; • un criterio alternativo, non identificato, per il quale occorre fornire la prova della correttezza dei risultati.
Il criterio del “differenziale tra patrimoni netti” prevede la quantificazione del danno risarcibile in misura pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura, e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento. Appare evidente che il risultato di tale prima operazione aritmetica corrisponde alla sommatoria dei risultati di esercizio maturati nel periodo assunto a riferimento, salvo eventuali operazioni sul capitale. Anche se non è espressamente indicato dal testo normativo, il risultato deve essere rettificato • al fine di sterilizzare l’effetto delle componenti di costo non monetarie, limitatamente a quelle che non concorrono alla determinazione del danno: ○ ammortamenti eccedenti la normale usura e obsolescenza; ○ svalutazioni; ○ accantonamenti ai fondi rischi e oneri a medio/lungo termine; ○ ecc. • al fine di tenere conto degli oneri finanziari maturati. Il risultato di tale seconda operazione si avvicina alla grandezza nota con l’acronimo di EBITDA, ossia l’Earning Before Interest Taxes Depreciation and Amortisation. Il valore così ottenuto deve, infine, essere rettificato per tenere conto dei costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Evidentemente a tale risultato, occorre aggiungere l’effetto di eventuali atti di mala gestio, che generano ex se un danno.
In alternativa al criterio presuntivo (o di default), si potrebbe – saltando i primi tre passaggi – quantificare il danno, assumendo come grandezza di riferimento (sebbene approssimativa) l’EBITDA, la quale: • tiene conto del risultato strettamente operativo generato dall’impresa; • esclude i costi definiti come “non monetari” ed è rappresentativa dei flussi finanziari generati dall’attività di impresa. Evidentemente, il risultato ottenuto deve essere incrementato degli oneri maturati, anche se non pagati: • oneri finanziari; • oneri fiscali; • oneri contributivi; • ecc. Adottando tale criterio, dalla data a partire dalla quale la perdita del capitale sociale diventa conoscibile da parte degli organi societari i flussi finanziari – derivanti unicamente dalla sua gestione caratteristica – concorrono alla quantificazione del danno per effetto dell’indebita prosecuzione dell’attività sociale. Evidentemente a tale risultato, è necessario – come di consueto – aggiungere l’effetto di eventuali atti di mala gestio.
7.1. Assumption Dopo avere individuato le principali fattispecie che possono configurare ipotesi di responsabilità civilistica e penale in capo agli organi societari, occorre chiedersi se – nei casi concreti – sia possibile utilizzare un modello di analisi unitario. A tale fine è stato sviluppato un modello di simulazione che si basa sulle seguenti assumption: • l’impresa oggetto di esame è esercitata in forma di società per azioni; • il periodo temporale di osservazione va dal 2010 al 2016; • sono stati riscontrati due atti dispositivi di partecipazioni ad un prezzo significativamente inferiore a quello di mercato; • la dichiarazione di fallimento interviene nel 2016; • la valutazione non corretta dei crediti e del magazzino conduce alla perdita del capitale sociale al 31 dicembre 2010; • l’utilizzo dei modelli predittivi della crisi conduce ad individuare la manifestazione dello stato di insolvenza al 31 dicembre 2010; Gli atti dispositivi delle partecipazioni a prezzo vile configurano, dal punto di vista sia civilistico sia penale, un danno corrispondente alla differenza fra il valore di mercato e il prezzo di dismissione, integrando – nel primo caso – una responsabilità verso la società e – nel secondo caso – ipotesi distrattive (rectius dissipative). Il danno derivante dalla prosecuzione dell’attività è stato calcolato raffrontando il risultato che si è realizzato nella situazione concreta e quello che si sarebbe realizzato compiendo esclusivamente atti conservativi, finalizzati alla massimizzazione del risultato della liquidazione (ipotesi di cessione dell’azienda). In particolare, nell’ipotesi di cessione dell’unica azienda, il conto economico conduce ad un risultato caratterizzato dalle seguenti grandezze: • nei primi due anni vi è un risultato coincidente con quello realmente manifestatosi; • alla fine del secondo anno si manifesta il ricavo derivante dalla cessione dell’unica azienda, comprensiva dell’avviamento; • negli ultimi tre anni non vi sono né ricavi né costi. Infine, quanto alle conseguenze derivanti dalle irregolarità di bilancio: • il danno, dal punto di vista sia civilistico sia penale, può considerarsi ricompreso in quello determinato per effetto della prosecuzione [continua ..]
7.2.1. Il danno derivante da episodi specifici Anzitutto occorre tenere conto della dismissione delle partecipazioni non strategiche, a prezzo inferiore a quello di mercato: Atti di mala gestio singolarmente individuabili Vendita partecipazione n. 1 (cespite non strategico) Esercizio 2013 Valore corrente 500 Prezzo di vendita 250 Danno 250 Vendita partecipazione n. 2 (cespite non strategico) Esercizio 2014 Valore corrente 500 Prezzo di vendita 250 Danno 250
I bilanci approvati recano i dati di seguito riportati STATO PATRIMONIALE Attivo 31/12/2010 31/12/2011 31/12/2012 31/12/2013 31/12/2014 31/12/2015 Immobilizzazioni 2.300 2.198 2.048 1.300 413 392 Immobilizzazioniimmateriali 250 200 100 50 0 0 Immobilizzazioni materiali 1.050 998 948 750 413 392 Immobilizzazioni finanziarie 1.000 1.000 1.000 500 0 0 Attivo circolante 1.705 1.752 1.602 1.445 1.377 1.320 Rimanenze 570 557 489 435 426 430 Crediti 1.130 1.190 1.110 1.005 950 890 Attività finanziarie 0 0 0 Disponibilità liquide 5 5 3 5 1 0 Totale attivo 4.005 3.950 3.650 2.745 1.790 1.712 Passivo 31/12/2010 31/12/2011 31/12/2012 31/12/2013 31/12/2014 31/12/2015 Patrimonio netto 304 310 327 279 204 123 Fondi rischi 10 10 10 10 10 10 Debiti verso banche 210 380 360 285 185 190 Debiti verso fornitori 1.950 1.845 1.707 1.535 1.202 1.220 Altri debiti 1.531 1.405 1.246 636 189 169 Totale passivo 4.005 3.950 3.650 2.745 1.790 1.712 CONTO ECONOMICO Voci 31/12/2010 31/12/2011 31/12/2012 31/12/2013 31/12/2014 31/12/2015 Ricavi delle vendite 2.500 2.300 1.500 950 520 380 Altri ricavi 21 19 17 67 56 21 Costo acq. mat. prime -598 -740 -296 -11 -25 -74 Costi per servizi -100 -76 -44 -8 Variazione rim. mat. prime 0 -13 -68 -54 -9 4 Oneri diversi di gestione Valore Aggiunto 1.823 1.490 1.109 952 542 323 Costo del [continua ..]
Tenuto conto dell’esiguità delle componenti di costo non monetari che non concorrono alla determinazione del danno (ammortamenti eccedenti la normale usura/obsolescenza e svalutazioni), si è provveduto – per semplicità espositiva – a calcolare il danno assumendo come base di calcolo i risultati d’esercizio maturati nel periodo di riferimento. Dall’analisi condotta utilizzando il criterio presuntivo (o di default) risulta, nell’ipotesi di dismissione universalistica dell’azienda, un danno quantificato nei seguenti termini: CONTO ECONOMICO RETTIFICATO Voci 31/12/2010 31/12/2011 31/12/2012 31/12/2013 31/12/2014 31/12/2015 Ricavi delle vendite 2.500 2.300 1.500 950 520 380 Altri ricavi 21 19 17 67 56 21 Costo acq. mat. prime -598 -740 -296 -11 -25 -74 Costi per servizi -100 -76 -44 0 0 -8 Variazione rim .mat. prime 0 -13 -68 -54 -9 4 Oneri diversi di gestione 0 0 0 0 0 0 Valore Aggiunto 1.823 1.490 1.109 952 542 323 Costo del personale -1.760 -1.440 -1.056 -960 -576 -384 EBITDA 63 50 53 -8 -34 -61 Ammortamenti -8 -7 -7 -6 -6 -5 Svalutazioni -2 -1 0 -1 0 0 EBIT 53 42 46 -15 -40 -66 Gestione finanziaria -17 -30 -29 -23 -15 -15 Risultato corrente 36 12 17 -38 -55 -81 Gestione straordinaria 0 0 0 -10 -20 0 Risultato prima delle imposte 36 12 17 -48 -75 -81 Gestione fiscale -2 -1 0 0 0 0 Risultato d’esercizio 34 11 17 -48 -75 -81 Rettifiche 315 31 62 62 170 90 Risultato rettificato -281 -20 -45 -110 -245 -171 Ipotesi [continua ..]
Dall’analisi condotta utilizzando il criterio alternativo risulta, nell’ipotesi di cessione d’azienda, un danno quantificato nei seguenti termini: CONTO ECONOMICO RETTIFICATO Voci 31/12/2010 31/12/2011 31/12/2012 31/12/2013 31/12/2014 31/12/2015 EBITDA 63 50 53 -8 -34 -61 Gestione finanziaria -17 -30 -29 -23 -15 -15 Gestione straordinaria 0 0 0 -10 -20 0 Gestione fiscale -2 -1 0 0 0 0 Risultato d’esercizio 44 19 24 -41 -69 -76 Rettifiche 315 31 62 62 170 90 Risultato rettificato -271 -12 -38 -103 -239 -166 Ipotesi liquidatoria 31/12/2010 31/12/2011 31/12/2012 Risultato d’esercizio 0 19 24 Risultato dellagestioneliquidatoria 0 0 470 TOTALE 0 19 494 Ipotesi fallimentare 31/12/2010 31/12/2011 31/12/2012 31/12/2013 31/12/2014 31/12/2015 Risultato addebitabile 19 24 -41 -69 -76 Dismissione fallimentare 147 TOTALE 0 19 24 -41 -69 71 31/12/2010 31/12/2011 31/12/2012 31/12/2013 31/12/2014 31/12/2015 Atti dispositivi 250 250 Risultato della gestione liquidatoria 512 Dismissione fallimentare 4 Atti dispositivi 500 DANNO 1.008