Diritto ed Economia dell'ImpresaISSN 2499-3158
G. Giappichelli Editore

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Liquidazione giudiziale e azioni di responsabilità tra conferme, reticenze e silenzi (di Ilaria Kutufà, Professoressa associata presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa)


Nell’ambito delle azioni di responsabilità nei confronti dei membri degli organi di amministrazione e di controllo delle società di capitali, il saggio illustra l’iter normativo di riferimento, nonché l’attuale formulazione del CCI. In tale prospettiva di analisi, l’autore si sofferma sulle novità apportate al dettato normativo, evidenziandone conferme, reticenze e silenzi rispetto alla normativa previgente.

Judicial liquidation and liability actions between confirmations, reticence and silences

In the context of liability actions against members of the administrative and control bodies of joint-stock companies, the essay illustrates the reference regulatory process, as well as the current formulation of the CCI. In this perspective of analysis, the author analyses in deep the changes made to the regulatory provisions, highlighting their confirmations, reticence and silences with respect to the previous legislation.

SOMMARIO:

1. Premessa: la confermata legittimazione del curatore all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità e dell’azione spettante ai creditori sociali - 2. Il problema dell’inscindibilità delle azioni nell’ondivaga gestazione dell’art. 255 del Codice della crisi - 3. Segue. I precipitati applicativi - 4. Il mancato riferimento (diretto ed esplicito) all’azione di responsabilità ex art. 2486 c.c. - 5. La necessaria integrazione dell’art. 291 del Codice della crisi per le azioni di responsabilità ex art. 2497 c.c. - NOTE


1. Premessa: la confermata legittimazione del curatore all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità e dell’azione spettante ai creditori sociali

Com’è noto, le procedure concorsuali – in generale – e il fallimento – in particolare – hanno sempre rappresentato il terreno di elezione delle azioni di responsabilità nei confronti dei membri degli organi di amministrazione e di controllo delle società di capitali per due (evidenti) ordini di ragioni: da un lato, perché l’azione sociale nelle società in bonis è spesso vanificata dal rapporto fiduciario, che lega maggioranza assembleare ed amministratori e sindaci [1]; dall’altro lato, in quanto i presupposti dell’azione dei creditori sociali vengono il più delle volte a concretizzarsi proprio con lo stato d’insolvenza della società, così determinando la perdita di legittimazione dei creditori al momento dell’apertura della procedura. In dottrina, la collocazione all’interno del codice civile (art. 2394 bis) di una regola di legittimazione generale per gli organi delle procedure concorsuali ha fondato l’opinione secondo cui l’azione degli stessi non deriverebbe dalle procedure suddette, non qualificandosi come autonoma e distinta da quelle disciplinate dagli artt. 2393 e 2394 c.c., ma i suddetti organi subentrerebbero semplicemente nella titolarità esclusiva delle rispettive azioni, che prima dell’apertura della procedura spettano alla società e ai creditori [2]. In giurisprudenza, per contro, si è teso soprattutto a qualificare entrambe come azioni di massa, valorizzandone – al di là della fonte dell’attribuzione – la finalità perseguita [3]: essendo ambedue proiettate alla ricostituzione del patrimonio del debitore sottoposto alla procedura, nella sua funzione di garanzia generica, esse sono state considerate esclusivamente destinate alla tutela delle prerogative dei creditori nel loro complesso (o, meglio, della procedura nella sua interezza e, quindi, non soltanto dei creditori concorrenti, considerando che il risultato ricavabile potrebbe essere utilizzato anche per il pagamento dei debiti della massa). In altri termini, in ambedue le azioni lo scopo è quello di aumentare la consistenza dell’attivo liquidabile e mai quello di reintegrare il patrimonio dei singoli creditori. Del resto, la nozione di azione di massa non ricomprende soltanto quella esercitabile esclusivamente per effetto della procedura concorsuale, che vede [continua ..]


2. Il problema dell’inscindibilità delle azioni nell’ondivaga gestazione dell’art. 255 del Codice della crisi

In effetti, in ordine all’azione sociale di responsabilità, l’art. 255 sembra riprendere ed esplicitare quanto già ricavabile – nel sistema previgente – oltre che dalla norma di diritto sostanziale contenuta nel codice civile, dagli artt. 42 e 43 della legge fallimentare, in forza dei quali – ad integrazione di quanto parallelamente disposto dall’art. 146 – si desumeva che spettasse al curatore la legittimazione (sostanziale e processuale) per l’esercizio e la tutela dei diritti del fallito: quindi, (anche) dei poteri attribuiti alla società nei confronti degli amministratori [6]. Per l’azione dei creditori sociali, invece, l’assenza di una norma concorsuale analoga imponeva di riconoscere la legittimazione del curatore per ragioni diverse, visto che non poteva considerarsi quale azione inclusa nel patrimonio del soggetto fallito. In particolare, si riteneva che la legittimazione dovesse qualificarsi come straordinaria e, per questo, necessariamente fondata su una specifica disposizione normativa, in ossequio alla riserva di legge di cui all’art. 81 c.p.c. [7]: la previsione specifica era rappresentata, nel sistema previgente, dal già richiamato art. 2394-bis c.c. (oltre che dall’art. 146 l.f.) e risulta, nell’attuale impianto, direttamente costituita dall’art. 255, il cui tenore letterale non lascia margini d’incertezza al riguardo. Nella vigenza della legge fallimentare, si era consolidata l’idea che, pur trattandosi di azioni distinte con presupposti diversi, l’azione sociale e l’a­zione dei creditori assumessero, nell’ambito del fallimento, carattere unitario ed inscindibile: si riteneva, cioè, che le distinte condizioni e i differenti scopi si fondessero tra loro al fine di consentire la reintegrazione del patrimonio sociale a garanzia dei soci e dei creditori, ossia l’acquisizione all’attivo della procedura di quel che era stato sottratto dal patrimonio sociale per fatti imputabili ai membri degli organi di amministrazione e controllo, dei direttori generali o dei soci ex art. 2476, comma 8, c.c. [8]. Si configurava così un cumulo che permetteva all’attore, qualora fossero venuti a mancare i presupposti di un’azione ma si fossero preservati quelli dell’altra, di proseguire il procedimento soccorrendo, nella carenza dei primi, la presenza dei [continua ..]


3. Segue. I precipitati applicativi

Ed invero, i riflessi applicativi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova denotano spiccata rilevanza. L’aspetto è chiaramente correlato alla natura della responsabilità (e, di conseguenza, dell’azione esperita per ottenere la condanna al risarcimento del danno che, a causa della stessa, è derivato al patrimonio sociale), di volta in volta specificamente contestata e dedotta in giudizio, secondo la disciplina offerta dalle disposizioni che, nel tipo societario coinvolto, sono dedicate alla relativa questione. Com’è noto, infatti, quando l’azione viene qualificata in termini contrattuali, chi agisce deve dimostrare l’esistenza della violazione dell’obbligo, la produzione di un danno e la sussistenza di un nesso causale fra condotta ed evento; non è tenuto, al contrario, a dimostrare la colpa e l’im­putabilità del comportamento, a differenza di quanto richiesto quando si tratta di responsabilità extracontrattuale [12]. L’azione sociale ha indubbiamente natura contrattuale e si fonda sul presupposto che gli amministratori abbiano causato un danno al patrimonio sociale quale conseguenza immediata e diretta di un atto, doloso o colposo, commesso in violazione dei doveri imposti dalla legge o dall’atto costitutivo. In altri termini, la responsabilità deriva dal compimento di atti contrari ai doveri degli amministratori, ad essi imposti dalla legge o dall’atto costitutivo o per gestione negligente. Chiaramente, non ogni comportamento contrario ai propri doveri è rilevante ai fini dell’esercizio dell’azione di responsabilità, essendo necessario che lo stesso abbia causato un danno. Di contro, qualora una determinata condotta abbia determinato un pregiudizio, ma non possa essere valutata come un contegno contrario ai doveri imposti dalla legge o dallo statuto ovvero – più in generale – difforme dal canone di diligenza imposto agli amministratori, non potrà essere dedotta a fondamento di un’azione di responsabilità [13]. L’azione dei creditori sociali – ormai transtipica, visto l’intervento del Codice della crisi, che ha colmato la lacuna prodotta dalla riforma del 2003, ripristinandola anche all’interno della disciplina applicabile alla società a responsabilità limitata – ha natura tuttora [continua ..]


4. Il mancato riferimento (diretto ed esplicito) all’azione di responsabilità ex art. 2486 c.c.

Sussiste indubbiamente un punto d’intersezione nel catalogo degli obblighi la cui violazione potrebbe esporre gli amministratori a responsabilità, legittimando il curatore ad esercitare sia l’azione sociale che l’azione dei creditori sociali. Ed infatti, l’obbligo di gestione conservativa in presenza di una causa di scioglimento, di cui all’art. 2486 c.c., grava specificamente sugli amministratori quale regola di condotta imposta a tutela tanto dei creditori sociali, quanto della società. Più precisamente, in presenza di una causa di scioglimento si assiste ad un ridimensionamento del potere gestorio nella misura (ridotta) della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale nella consapevolezza che l’obbligo di gestire l’impresa nella prospettiva della continuità aziendale deve essere interpretato non tanto nel senso di un dovere di esercizio dell’attività nell’interesse di altri (ossia dei soci), quanto piuttosto con il significato di un divieto di continuare ad esercitarla a danno di altri (e, quindi, dei creditori), al fine di evitare che – quando ormai i primi hanno subito l’erosione del capitale sociale e, non avendo più niente da perdere, potrebbero indulgere ad azzardi morali, compiendo operazioni spregiudicate – si determini un’inde­bita traslazione del rischio d’impresa in pregiudizio dei secondi [20]. Gli amministratori hanno l’obbligo di assumere misure tempestive e adeguate al fine di realizzare il necessario mutamento nell’arbitraggio dei plurimi interessi in gioco in prossimità della crisi e della perdita della continuità aziendale: in particolare, il momento indicato segna uno snodo che impone «un aggiustamento di rotta nel processo dinamico di osservanza del principio di corretta gestione imprenditoriale», i cui contenuti appaiono così in grado di cambiare al mutare delle condizioni in cui l’impresa si trova a operare [21]. È noto, infatti, che nella c.d. twilight zone, l’interesse dei creditori al soddisfacimento delle proprie ragioni debba prevalere rispetto a quello dei soci alla massimizzazione del valore del loro investimento [22]. In ragione di ciò, non sembra potersi ragionevolmente negare che la violazione dell’obbligo di verificare puntualmente la sostenibilità [continua ..]


5. La necessaria integrazione dell’art. 291 del Codice della crisi per le azioni di responsabilità ex art. 2497 c.c.

L’art. 255 menziona esplicitamente, tra quelle esercitabili dal curatore, l’azione prevista dall’art. 2497, comma 4, c.c., ossia l’azione spettante ai creditori della società eterodiretta. L’art. 146 l.f., al contrario, nulla esprimeva al riguardo, ma la norma di diritto sostanziale (lo stesso art. 2497, comma 4, c.c.) già attribuiva al curatore tale legittimazione, peraltro nella pratica ampiamente “sfruttata” proprio in sede concorsuale, avendo da sempre il fallimento costituito il terreno di elezione naturale (anche) delle azioni di responsabilità per abuso di direzione e coordinamento. Sia l’art. 255 del Codice della crisi che l’art. 2497, comma 4, c.c. attribuiscono specificamente al curatore l’azione spettante ai creditori della società sottoposta a direzione unitaria e non anche quella dei soci esterni, fondandosi la pretesa risarcitoria, in un caso, sulla lesione dell’integrità del patrimonio sociale e, nell’altro, sul pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione sociale: in entrambe le ipotesi, sul presupposto comune della violazione, da parte della società che esercita attività di direzione e coordinamento, dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale [26]. Ma mentre la prima è assimilabile a quella esercitabile ex art. 2394 c.c. [27], dato che – in ambedue i casi – l’azione individuale del creditore prima della liquidazione giudiziale si tramuta in azione di massa dopo l’apertura della procedura, perché vi è l’esigenza di reintegrare la garanzia patrimoniale generica a beneficio dell’intera schiera dei creditori della società insolvente, destinandosi il risultato a vantaggio della massa e non del singolo [28], la seconda allude evidentemente ad un’azione diversa da quella esercitabile ex art. 2395 c.c. o, a seconda del tipo societario, ex art. 2476, comma 7, c.c.: trattandosi dell’allegazione di una responsabilità diretta della capogruppo verso i soci della società soggetta a direzione e coordinamento per il pregiudizio, tipicamente riflesso, allo shareholder value, che determina – derogando alle regole di canalizzazione verso la società del risarcimento di ogni danno rispetto al quale il patrimonio sociale non sia rimasto indifferente (c.d. [continua ..]


NOTE