Diritto ed Economia dell'ImpresaISSN 2499-3158
G. Giappichelli Editore

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La responsabilità penale degli organi societari (di Maurizio Riverditi)


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SOMMARIO:

1. Il momento storico-normativo-culturale di riferimento: la gestione del rischio come paradigma ineludibile del “fare impresa” - 2. La continuità aziendale come valore meritevole di (autonoma) tutela - 3. La tutela della continuità aziendale nelle società a partecipazione pubblica: un inquadramento - 4. L’oggetto del monitoraggio e della programmazione: gli indici sintomatici (e i livelli di attenzione) della crisi - 5. La (possibile) rilevanza penale dell’inadeguata gestione del rischio di crisi aziendale. L’individuazione della soglia del rischio consentito - 6. Mancata adozione degli strumenti valutazione/gestione della crisi - 7. Inadeguatezza dell’assetto organizzativo e/o del piano di risanamento - 8. Quale futuro per il delitto di bancarotta? - NOTE


1. Il momento storico-normativo-culturale di riferimento: la gestione del rischio come paradigma ineludibile del “fare impresa”

Il Convegno organizzato dal Prof. Luciano Quattrocchio sulla “Gestione della crisi nelle società a partecipazione pubblica” (d.lgs. n. 175/2016 come integrato dal d.lgs. n. 100/2017), interviene in un momento particolarmente opportuno, che coincide con l’approvazione del Codice della crisi e dell’insol­venza, contenuto nel d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 [1]. Si tratta di una coincidenza proficua, perché offre lo spunto per porre a confronto due impianti normativi che non solo paiono legati da un evidente e oltremodo interessante fil rouge, ma che si pongono su di una linea di tendenziale progressione operativa, da cui possono trarsi interessanti elementi di riflessione per la reciproca comprensione e per la definizione dei rispettivi ambiti di applicazione. Ed è interessante notare come anche gli argomenti che riguardano più da vicino queste brevi riflessioni si inseriscano nel solco di un approccio culturale e normativo che contraddistingue, in modo generalizzato, i temi nevralgici del diritto penale d’impresa: la gestione della crisi e, più in generale del rischio rappresenta la modalità comportamentale attesa (e, quindi, doverosa) a cui l’ordinamento mira per anticipare, prevenire e contenere le conseguenze dannose del fare impresa. La rilevanza del rischio nell’attività imprenditoriale ha assunto valore crescente nel tempo e numerosi interventi normativi hanno comportato per le imprese, in base al criterio di proporzionalità (natura e dimensioni dell’impresa), l’obbligo di dotarsi di procedure di contenimento del rischio, destinando conseguentemente adeguate risorse alla gestione dell’incertezza. Il “risk management” rappresenta quindi una innovazione manageriale il cui ruolo si concretizza nel garantire la protezione del “sistema azienda” dagli eventi sfavorevoli e dai loro effetti. Infatti l’impostazione della analisi dei rischi e dei relativi controlli in una ottica sistemica comporta la necessità di procedere con ordine e con metodo circa il loro “trattamento” e le relative soluzioni da adottare per contenere detti rischi. Il modello del c.d. risk approach, inoltre, accomuna temi tra loro (solo apparentemente) eccentrici: dalla sicurezza negli ambienti di lavoro alla responsabilità da reato degli enti, a cui si affianca, oggi, anche il [continua ..]


2. La continuità aziendale come valore meritevole di (autonoma) tutela

Con specifico riferimento alla crisi d’impresa, l’impianto normativo di riferimento si è arricchito di un tassello importante ad opera del d.lgs. n. 14/2019, che ha inserito un nuovo secondo comma all’art. 2086 c.c. (oggi significativamente rubricato “Gestione dell’impresa”), che estende a tutti gli imprenditori l’obbligo «di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale». Che si tratti (non solo di un’indicazione di indirizzo, ma di un vero e proprio) dovere dell’imprenditore, si ricava sia dallo stesso tenore letterale del­l’art. 2086 c.c., sia dai rimandi a questo contenuti nel d.lgs. n. 14/2019. In tal senso, depongono, tra l’altro: (i) l’art. 3 (Obblighi dei soggetti che partecipano alla regolazione della crisi o dell’insolvenza), con cui si precisa che l’im­pren­ditore collettivo «deve adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell’art. 2086 del codice civile ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative»; e (ii) l’art. 14 (Obbligo di segnalazione degli organi di controllo societari), che al primo comma, pone a carico degli organi di controllo societari, del revisore contabile e della società di revisione, ciascuno nell’ambito delle proprie funzioni, «l’obbligo di verificare che l’organo amministrativo valuti costantemente, assumendo le conseguenti idonee iniziative, se l’assetto organizzativo dell’impresa è adeguato, se sussiste l’equilibrio economico finanziario e quale è il prevedibile andamento della gestione, nonché di segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l’esistenza di fondati indizi della crisi». La crisi, dunque, assume i connotati di un “rischio immanente” all’attività d’impresa (come un infortunio oppure come la commissione di un reato contemplato dal d.lgs. n. 231/2001), che [continua ..]


3. La tutela della continuità aziendale nelle società a partecipazione pubblica: un inquadramento

L’impianto normativo previsto per le società a partecipazione pubblica dal T.U. 175/2016 [5] anticipa (e, in un certo senso, amplifica) le scelte che sono state attuate con il Codice della crisi e disegna un impianto funzionalmente e razionalmente coordinato verso la salvaguardia della continuità aziendale. Nell’economia di queste riflessioni, è utile ricordare che il sistema di gestione della crisi nelle società partecipate si regge sulla convergenza di alcune disposizioni che toccano, in modo sinergico, sia gli aspetti gestionali, sia quelli, lato sensu, sanzionatori. In particolare, sul piano degli strumenti di gestione, debbono essere considerati: i. l’obbligo di predisporre «specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale» (comma 2, dell’art. 6, significativamente rubricatoPrincìpi fon­damentali sull’organizzazione e sulla gestione delle società a controllo pubblico), che formano oggetto, tra l’altro, di uno specifico obbligo di informazione da parte degli amministratori nei confronti dell’assemblea in occasio­ne della relazione annuale sul governo societario (art. 6, comma 4); ii. in caso di emersione di «uno o più indicatori di crisi aziendale», l’obbli­go di adottare, «senza indugio», dei «provvedimenti necessari al fine di prevenire l’aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminarne le cause, attraverso un idoneo piano di risanamento» (art. 14, comma 2); iii. l’impossibilità di considerare, sic et simpliciter, «provvedimento adeguato», ai sensi dell’art. 14, comma 2, la «previsione di un ripianamento delle perdite da parte dell’amministrazione o delle amministrazioni pubbliche socie, anche se attuato in concomitanza a un aumento di capitale o ad un trasferimento straordinario di partecipazioni o al rilascio di garanzie o in qualsiasi altra forma giuridica» [6] (art. 14, comma 4). Sul piano degli aspetti, lato sensu, sanzionatori si segnala: i. l’affermazione che la mancata adozione di provvedimenti adeguati, a sensi dell’art. 14, comma 2, costituisce «grave irregolarità ai sensi dell’art. 2409 del codice civile» (art. 14, comma 3); ii. il divieto per le pubbliche amministrazioni, di sottoscrivere aumenti [continua ..]


4. L’oggetto del monitoraggio e della programmazione: gli indici sintomatici (e i livelli di attenzione) della crisi

Per la comprensione del sistema in tal modo prefigurato e, di conseguenza, per valutare l’emergere di eventuali profili di responsabilità per il caso in cui siano disattesi gli obblighi sui quali lo stesso si regge, è fondamentale far luce sul concetto di crisia cui occorre far riferimento per le attività di programmazione e di controllo a cui si è fatto cenno. Muovendosi all’interno delle disposizioni contenute nel Testo Unico, e­mer­ge, con sufficiente chiarezza, che la crisi che dev’essere prevista (art. 6) e gestita (art. 14) è intesa quale conseguenza di cause ancora suscettibili (quantomeno in ipotesi) di essere eliminate mediante un «idoneo piano di risanamento». Si tratta, dunque, di una situazione che precede l’insolvenza «e che è tale da imporre provvedimenti adeguati a determinarne la reversibilità, al fine di scongiurare l’attivazione della procedura concorsuale» [10]; e, su questi presupposti, il CNDCEC ha ritenuto di definire la nozione di crisi che interessa sulla base del concetto «di incapacità corrente dell’azienda di generare flussi di cassa, presenti e prospettici, sufficienti a garantire l’adempimento delle obbligazioni già assunte e di quelle pianificate» [11]. Questa definizione ha trovato un esplicito riscontro all’art. 2 del Codice della Crisi, che espressamente definisce la crisi come «lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate». Lo stato di crisi, dunque, rappresenta una situazione sintomatica, ma non necessariamente prodromica dello stato d’insolvenza [12]. Date queste premesse, si comprende l’importanza sia della selezione degli indici quali-quantitativi a cui affidare l’intercettazione dello stato crisi nel­l’ambito della visione prospettica che ne caratterizza l’essenza [13]; sia della pro­gramma­zione e pianificazione dell’attività d’impresa, al fine di consentire di monitorarne l’andamento. Da qui la necessità di fare affidamento su business plan costituiti con rigore, da cui trarre indicazioni per valutare: la continuità aziendale; la [continua ..]


5. La (possibile) rilevanza penale dell’inadeguata gestione del rischio di crisi aziendale. L’individuazione della soglia del rischio consentito

Così definito il perimetro che delimita lo spazio nel cui ambito potrebbero individuarsi eventuali profili di responsabilità penale a carico dei componenti degli organi societari [16], l’attenzione si concentra sulle ipotesi di: 1. mancata adozione di un adeguato sistema di controllo di gestione[17]; 2. mancata predisposizione di un adeguatobusiness plan funzionale al monitoraggio, in chiave prospettica, dell’andamento aziendale [18]; 3. mancata attivazione degli organi di controllo interno[19]; 4. mancata previsione e/o attivazione di un adeguato piano di risanamento[20]. Con due, indispensabili – per quanto ovvie – precisazioni: i. la lente di osservazione del diritto penale non coincide (quantomeno non necessariamente) né con i presupposti dellamala gestio fondante la responsabilità degli amministratori ex art. 2392 c.c.; né con il giudizio di responsabilità per le omissioni dei sindaci (art. 2407 c.c.); né con la grave irregolarità rilevante ex art. 2409 c.c. (art. 14, comma 3); né, infine, con i presupposti a cui il T.U. 175/2016 ricollega le conseguenze lato sensu “sanzionatorie” previste in tema di ripianamento delle perdite e di inibitoria per la costituzione di nuove società (art. 14, commi 4, 5 e 6). Al contrario, la mancanza o l’inidoneità dell’assetto organizzativo adottato per la tempestiva rilevazione e gestione della crisi potrà assumere rilievo penale solo se risulterà superata la soglia del rischio consentito, desunta dalla possibilità di affermare che le omissioni in tal modo riscontrate sono riconducibili nella sfera di applicabilità delle specifiche ipotesi di reato previste dal diritto penale societario e (nel linguaggio tutt’ora applicabile) dal diritto penale fallimentare. ii. La misura delrischio consentito dovrà essere individuata assumendo come parametro di giudizio non già la correttezza/attendibilità/efficacia, ex post, delle singole valutazioni contenute nel business plan, o dei singoli indici di emersione della crisi o delle singole azioni contemplate nel piano di risanamento; bensì la ragionevolezza ex ante dell’impostazione adottata per la redazione e l’adozione degli uni e degli altri. Detto altrimenti: trattandosi di azioni e valutazioni [continua ..]


6. Mancata adozione degli strumenti valutazione/gestione della crisi

Al di là delle responsabilità lato sensu civilistiche connesse alla violazione degli obblighi di corretta amministrazione [23], si tratta di un’ipotesi che potrebbe assumere diversa rilevanza a seconda che si versi nell’ambito di una società in bonis oppure in stato di decozione. Nel primo caso, tale omissione potrebbe assumere rilievo allorché sia dolosamente occultata, mediante mendaci dichiarazioni, in occasione della relazione annuale prevista dall’art. 6, commi 2 e 4: trattandosi di relazioni (o, comun­que, di comunicazioni sociali) dirette ai soci (oltre che al pubblico) previste dalla legge, le falsità concernenti le attività svolte per l’adempimento dell’ob­bligo a tal fine imposto dall’art. 6, comma 2, potrebbero rientrare (sussistendone tutti gli ulteriori indici di rilevanza) nel raggio di qualificazione dell’art. 2621 c.c. In caso di insolvenza, la violazione degli obblighi in esame potrebbe essere considerata causativa del fallimento [24] (quantomeno nella prospettiva del­l’o­mes­so impedimento, ex art. 40, cpv., c.p.) e, allorché se ne dimostrasse la natura dolosa, potrebbe assumere rilevanza alla stregua dell’all’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall.; ovvero, in caso di colpa [25], ai sensi dell’art. 224, n. 2, legge fall. [26]. Il rapporto di stretta connessione dello stato di crisi rispetto allo stato d’in­solvenza, infatti, potrebbe costituire il punto d’innesco del giudizio controfattuale sulla base del quale accertare che la consapevole (o colpevole) mancata adozione degli strumenti (normativamente imposti) per intercettare e gestire il primo ha contribuito a determinare il secondo. Giudizio, che, peraltro, dovrà rifuggire qualsiasi inammissibile semplificazione fondata su mere presunzioni o deduzioni astratte, avulse dalla concreta ricostruzione e valutazione del contesto a cui lo stesso dev’essere riferito.


7. Inadeguatezza dell’assetto organizzativo e/o del piano di risanamento

La valutazione di adeguatezza dell’assetto organizzativo funzionale all’in­tercettazione e gestione dello stato di crisi, potrebbe essere elevato a paradigma di accertamento degli indizi di responsabilità per le ipotesi di bancarotta variamente incentrate sulla causazione [27] del dissesto. Richiamando gli insegnamenti della giurisprudenza (soprattutto) civilistica, è doveroso rammentare che un conto è il sindacato sulla scelta “in quanto tale”, altro è il sindacato sul modus decidendi dell’organo gestorio e sul modus vigilandi dell’organo di controllo: «è solo l’eventuale omissione, da parte dell’amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel genere che può configurare la violazione dell’obbligo di adempiere con diligenza il mandato di amministratore e può quindi generare una responsabilità contrattuale dell’amministratore verso la società» [28] (c.d. business judgment rule). Di talché, si osserva, «laddove dovessero emergere lacune nelle procedure che hanno portato ad una determinata scelta organizzativa – poi rivelatasi dannosa – o una superficiale e scarsa istruttoria, o una incompleta ricognizione delle condizioni operative dell’impresa, allora si potrebbe sostenere la sussistenza di una negligenza gestionale che si è poi riflessa in un’errata scelta organizzativa» [29]. Su queste premesse, si potrebbe ritenere, pur con la prudenza del caso, che laddove si dovesse dimostrare un’effettiva incidenza causale dell’inidoneità del sistema organizzativo adottato rispetto alla causazione (o aggravamento) del dissesto, la distanza tra la regola di comportamento attesa e assunta come doverosa ed il comportamento tenuto nel caso specifico [30], potrebbe fungere da elemento di valutazione per la ricostruzione dell’elemento soggettivo che ne ha accompagnato la realizzazione. In questa prospettiva, nell’impossibilità di prevedere e analizzare (in questa sede) tutte le possibili forme in cui potrebbe declinarsi la (ritenuta) inidoneità dell’assetto organizzativo [31], pare comunque destinato ad assumere particolare importanza operativa il confronto tra la scelta a tal fine [continua ..]


8. Quale futuro per il delitto di bancarotta?

Tirando le fila del ragionamento abbozzato, non pare peregrino individuare in filigrana nel tessuto normativo esaminato un progressivo assestamento verso la “normativizzazione” e procedimentalizzazione della gestione della crisi. Secondo uno schema ormai collaudato [33] la crisi e, in prospettiva, l’insol­venza rientrano nel novero dei rischi da prevenire e gestire, con i quali l’im­prenditore deve confrontarsi secondo un metodo comportamentale improntato al rispetto di procedure e regole “autonormate” e calibrate sullo specifico rischio di volta in volta affrontato. Si tratta, invero, di un modello tipico dell’illecito colposo, di cui è emblematica espressione il settore della sicurezza nei luoghi di lavoro: il rischio-infortunio viene contenuto e gestito mediante una capillare e sinergica attività basata sulla coppia concettuale “previsione-reazione”, funzionale a ridurre gli spazi in cui può inserirsi l’intervento del fattore causale imprevisto (pur se prevedibile). Analogamente, la crisi, quale rischio prevedibile (e nei limiti in cui resta prevedibile) viene affrontata mediante l’imposizione del dovere di limitare lo spazio d’incidenza dell’alea, attraverso una continua attività di pianificazione e confronto dei risultati attesi con quelli realmente conseguiti. In questo modo, peraltro, le varie ipotesi di bancarotta (soprattutto quelle incentrate sulla causazione del dissesto) sembrano destinate a subire una significativa trasformazione e, soprattutto, una non trascurabile riduzione operativa: pur restando (ad oggi) prevalentemente ancorate al paradigma dell’illecito doloso (salvo l’ipotesi prevista all’art. 224, n. 2, legge fall.), tanto la ricostruzione della fattispecie concretamente realizzata, quanto, soprattutto, la valutazione dell’at­teggiamento soggettivo che ne ha accompagnato la consumazione sembrano destinate a spostarsi verso metodi di accertamento tipici del modello colposo. A tal riguardo, infatti, è sufficiente por mente all’importanza che paiono destinate ad assumere le scelte compiute sul versante della procedimentalizzazione della valutazione dell’insorgenza della crisi e degli strumenti che saranno a tal fine impiegati per misurarne l’impatto sulla realtà operativa della società, sulla scorta delle linee guida elaborate dalle [continua ..]


NOTE